Tra le tante verità
messe per iscritto da Ennio
Flaiano ce n'è una che forse è
ancora più vera di tutte le altre, se non altro perché si tratta di una verità espressa più di
mezzo secolo fa e che stiamo
definitivamente scontando in
questo periodo, soprattutto a
causa di interi decenni di politiche dissennate e conseguenti cementificazioni selvagge,
ma anche perché il paradiso
(apparente) del tenore di vita
ha stretto uno sciagurato coniugio col cattivo gusto e la
volgarità. Cosa diceva Flaiano? La famosa e tanto decantata "isola deserta" non esiste
più, perché è diventata periferia, e la periferia (intesa anche
come "provincia" quale condizione dell'anima, e cioè come pochezza grettezza e strettezza di orizzonti) a sua volta
si è mangiata il centro.
Opera fondamentale
Ecco quindi che in un mondo
ormai ridotto a un'unica e più
o meno indifferenziata "suburbia" il barometro e il sismografo che registrano movimenti e trasformazioni si
sono forse spostati verso la
periferia e più ancora verso la
provincia, perché è soprattutto nella provincia, fago citata
da un folle e disumano sogno
espansionistico, che si registrano le mutazioni maggiormente significative in termini
di costumi, manie, proiezioni
immaginative e abitudini. E
poi non è nemmeno necessario andare in lontane contrade di fantasia, come la leggendaria Yoknapatawpha di William Faulkner.
E infatti sufficiente farsi
guidare da Gianni Celati tra le
vie, le piazze, i caffè, gli stradoni periferici, le case, gli abituri e la popolazione di mattoidi della città di provincia
(non viene mai nominata, ma
molti particolari lasciano intuire che si tratta della Ferrara della sua adolescenza e prima giovinezza) che fa da sfondo a un ciclo narrativo al quale
lo stesso Celati ha cominciato
a lavorare più di trent'anni fa e
i cui singoli segmenti, sotto il
titolo Costumi degli italiani,
sono stati pubblicati a partire
dal 2006 inizialmente dall'editore Nottetempo e poi da
Quodlibet, che adesso li riunisce opportunamente in un volume della collana "Compagnia Extra".
L'ampia produzione di Celati comprende alcuni dei titoli più importanti e significativi della narrativa italiana di
questi ultimi decenni - da Comiche dell'ormai lontanissimo 1971 a Lunario del paradiso, da Narratori delle pianure a Cinema naturale,
solo per citarne alcuni -, ma
forse la sua opera davvero
fondamentale può essere individuata proprio in questo
ciclo narrativo, perché Costumi degli italiani ha il merito di riassumere, per così dire ampliandoli e dilatandoli,
tutti gli ambienti, i luoghi, le
suggestioni, i tipi psicologici e
antropologici già descritti negli altri libri.
Come sempre in Celati, il libro è scritto con uno stile inconfondibile, preciso, arioso e
di grande suggestione, che
questa volta tiene perfettamente anche la lunga distanza, coi personaggi che si rincorrono di racconto in racconto, rincorrendo nello stesso tempo le proprie fantasticazioni (c'è molto Leopardi,
autore da sempre prediletto
da Celati), le delusioni e disillusioni, i brevi e illusori entusiasmi, le rabbie, i furori quasi
ariosteschi, e in più con la costante percezione (talora divertentissima, ai limiti della
comicità da "Slapstick Comedy", talora dai toni molto più
cupi e malinconici) di una vita
che è sempre da qualche altra
parte e forse, in ultima analisi,
non è proprio da nessuna parte ed esiste soltanto nei pensieri che si fanno.
Cosa ci facciamo qui?
Per i personaggi di questi Costumi degli italiani vale insomma la verità che Celati
aveva già espresso quarant'anni fa nelle righe finali di un
altro ciclo narrativo, Parlamenti buffi: «La vita è una
cosa che non si sa cosa sia.
Molti parlano per dire che è
questo o quello, però succede
che tutto succede come succede. E una cosa che succede e
non si capisce a cosa assomiglia».
Anche nella città di provincia descritta in Costumi degli
italiani succede che tutto
succede come succede, e nessuno ci capisce niente. Non rimangono che le sensazioni,
vaghe, indistinte, perse in
«una grande foschia che sembra un regno dell'aldilà dove le
anime arrancano per purgarsi
della loro ansia di vita».
C'è ad esempio il giovane rimuginatore Zoffi, che ha l'impressione di «essere separato
da tutto», oppure il "bancario
incanalato" Bacchini, che trova che «il dentro e il fuori non
collimano», lo sbombardato
Pucci, col «cervello fuori
squadra», vero e proprio "eroe
moderno" perché ha capito
che niente vale niente e finisce in un manicomio dove sta
benissimo, c'è la scrittrice
esaltata Cornelia, che racconta di viaggi che non ha mai fatto, e molti altri ancora, tutti
chiusi nella gabbia del proprio
io, tutti proiettati verso il
"nuovo giorno": «Senza aspettarti niente, soltanto perché
ci sei, e sei lì da buon carcerato, come se fosse il mattino
della tua liberazione». Ma le
parole davvero definitive,
mutuate liberamente da
Schopenhauer, le dice il filosofo in rovina nonché bevitore seriale Professor Amos,
quando gli altri mattoidi poveri cristi chiedono a lui, povero cristo sapiente e studioso, di spiegare cosa ci stiamo a ,
fare in questo basso mondo.
La risposta? Eccola: «Mangiare, dormire, lavorare, litigare, imbrogliare, mettere su casa, fare figli, ma soprattutto cercare qualcuno dell'altro sesso per il desiderio di fare la cosiddetta copula, in modo che la natura produca degli altri come noi, lasciandoci sempre credere che sia tutto per nostro gusto personale».