Recensioni / “Geometria del conflitto”. Ripartire da ciò che ci resta

Dopo aver dedicato due monografie al pensiero politico di Machiavelli – Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Machiavelli (Quodlibet, 2017) e Cartografia politica. Spazi e soggetti del conflitto in Niccolò Machiavelli (Olschki, 2018) – Francesco Marchesi propone, nel suo nuovo Geometria del conflitto. Saggio sulla non-corrispondenza (Quodlibet, 2020) uno studio più ampio e certamente ambizioso sui modi con cui il conflitto politico è stato pensato nella contemporaneità filosofica. Le prime due parti del testo presentano una cartografia delle posizioni in gioco, disposte secondo una griglia rigorosamente definita e che assume quasi i connotati di una struttura lévi-straussiana: ogni modello del conflitto verrà indagato, in successione, nei suoi presupposti epistemologici, nelle istanze politiche in grado di produrre e, infine, nell’idea di storia e di diacronia che da essi promana. Ne risultano due grandi paradigmi: da un lato, pensatori che hanno tematizzato un conflitto simmetrico (Foucault, Arendt, Schmitt); dall’altro, filosofi che ne hanno pensato, al contrario, la natura intrinsecamente asimmetrica (le varie forme di lacanismo politico scaturite dall’esperienza dei Cahiers pour l’analyse , Althusser, Laclau). Segue un’ultima parte dedicata a una proposta teorica alternativa ai due modelli analizzati.
Il primo motivo di interesse del testo di Marchesi è costituito precisamente dalla potenza euristica della sua impostazione metodologica, e in particolare della sua griglia di lettura, che si manifesta su tre livelli distinti e concentrici: innanzitutto, essa taglia gli autori in oggetto in base a un’angolatura che ne illumina linearità di fondo non evidenti, insospettate, sorprendenti – e a volte, come vedremo, improprie : pegno pagato alla natura ardita dell’operazione teorica, indubbiamente, ma anche e allo stesso tempo manifestazione di superficie particolarmente significativa di una scelta politica di fondo, su cui sarà necessario tornare –; in secondo luogo, li raggruppa in gruppi di affinità inusuali, tracciando concordanze a volte rivelatrici, altre sottilmente provocatorie; infine, scioglie l’apparente opposizione tra questi ultimi, mostrando come, a un livello ulteriore dell’analisi, essi siano legati da una solidarietà inconfessabile. Solidarietà che invoca un loro superamento, secondo una tradizione hegeliana stemperata, tuttavia, dal rivendicato – e praticato – materialismo non soltanto della sua proposta teorica, ma anche, in un certo senso, dell’incedere argomentativo: che non procede per sintesi astratte e teoretiche, ma per analisi puntigliose delle varie boîtes à outils poste sotto esame, guidate dallo scopo pratico di discernere ciò che è utile, efficace e imprescindibile da ciò che non lo è, in vista dell’approdo normativo finale. Ciò spiega perché, se è vero che i modelli di conflitto simmetrico e asimmetrico analizzati sono entrambi soggetti a una critica, essi non siano equivalenti secondo l’autore e anzi quasi disposti in un percorso ascensionale che ricava punti fermi nello stesso gesto con cui segnala vie politicamente e teoricamente indesiderabili.

Innanzitutto, dunque, Marchesi manifesta la necessità di un superamento delle concezioni simmetriche del conflitto: quei modelli, in altri termini, in cui il conflitto politico assume la configurazione di uno scontro primigenio e originario tra avversari totalmente anonimi, privi cioè di ulteriori determinazioni extra-politiche (sociali, economiche) e, dunque, al limite, funzionalmente equivalenti e assiologicamente indistinguibili. Simmetrici, per l’appunto, nella loro assenza di prerogative. Trattato come un presupposto ontologico del sociale e della storia, il conflitto politico perde, in questi paradigmi, i suoi tratti qualificanti, con esiti diversi ma accomunati da un’origine comune. In Foucault «l’indecidibilità sincronica» tra gli attori dello scontro tra poteri e resistenze si accompagna a una impossibilità (diacronica) di pensare la rottura storica, il superamento di una data forma del conflitto; in Schmitt, Marchesi ricostruisce con acume il doppio movimento di uno scontro che da un lato svuota di tratti gli avversari politici – verso un conflitto simmetrico e indeterminato che soggiace come origine senza fondo alle sue determinazioni storiche concrete –, e dall’altro sovrappone gli stessi tratti nel gesto violento con cui il sovrano crea la situazione normale, terminando la contrapposizione: mostrando così come le interpretazioni reazionarie, concentrate sul momento della sovrapposizione come decisionismo assoluto, e le letture progressiste, che sottolineano invece lo svuotamento come scoperta del fondo cavo di ogni legittimità sovrana, trovino il loro comune fondamento in una visione del conflitto dagli esiti o apertamente conservatori o inevitabilmente ineffettuali; in Arendt, infine, è l’isolamento del politico da ogni altra forma di attività umana a produrre uno spazio tendenzialmente elitario e inerte nella sua incapacità di trasformarsi, di cambiare forma. Da un modello simmetrico del conflitto politico scaturiscono così opzioni che ne esaltano la produttività originaria, espressa da momenti costituenti sempre parziali e puntuali: destinandosi così a ripeterlo indefinitamente, senza trasformazioni né sviluppi propriamente storici; e proposte che lo trattano, al contrario, come origine inattingibile di per sé, da preservare attraverso una destituzione continua di ogni forma e di ogni ordinamento. Ripetizione e inerzia si toccano, tuttavia, nell’incapacità di pensare la forma, la diacronia, la storia.
Sarà allora nei modelli asimmetrici di conflitto che andrà ricercata un’alternativa praticabile. Marchesi prende in esame, qui, le diverse forme di lacanismo politico, il marxismo di Althusser e l’opera di Laclau. Tali modelli, accomunati dalla comune matrice strutturalista, riescono sì a sfuggire alla ripetizione inerte del conflitto: al costo, tuttavia, di pensarne le forme e le simbolizzazioni come costitutivamente parziali. Alla ripetizione della pienezza, immanente o inattingibile, del conflitto, si sostituisce qui, in altri termini, la successione di forme sempre provvisorie, segnate da un vuoto e da una mancanza che ne impedisce la sedimentazione storica. L’asimmetria, data in generale qui dallo scontro diseguale tra le strutture e gli anelli deboli della loro azione simbolica, che ne impedisce la chiusura, produce movimento e trasformazione ma non storia, in quanto a ogni destrutturazione segue una chiusura simbolica ancora una volta inevitabilmente incompleta. Miller e poi Zupančič prescrivono così una politica della mancanza che costruisca simbolizzazioni consapevoli della loro parzialità – producendo, in termini lacaniani, il simbolico a partire dal reale –, concentrandosi così di fatto sul solo momento della destrutturazione della chiusura immaginaria del sistema e pensando in termini pressoché inerziali il momento ricompositivo; in Althusser, evento e struttura risultano mutualmente incompatibili, per cui alla consistenza storica di quest’ultima risponde l’aleatorietà inevitabilmente puntuale della sua interruzione; in Laclau, infine, l’attenzione evidente, nella logica egemonica, per il momento ricompositivo sfocia ancora una volta in totalità parziali, segnate da un vuoto, quello del sociale, che si ripete uguale a se stesso di articolazione in articolazione.
Contro la ripetizione dell’origine o della mancanza, Marchesi giunge infine a proporre una posizione alternativa, che cerca di pensare assieme asimmetria del conflitto e pienezza della forma. I riferimenti qui sono Machiavelli, Gramsci e un Althusser alternativo a quello criticato nella parte precedente: nella triangolazione tra queste fonti giace secondo Marchesi la possibilità di pensare un conflitto che, messo infine in relazione costitutiva con le condizioni economiche e sociali in cui si dispiega, produce forme non vuote poiché sempre in riscontro con queste ultime, che ne costituiscono banco di prova e metro di giudizio. L’asimmetria, data dall’incontro tra processi differenti e attori caratterizzati, produce così forme politiche in grado di farsi diacroniche e storiche poiché in relazione continua con dette condizioni. Una proposta che, in altri termini, torna a una prospettiva materialista per pensare la storicità delle forme: un materialismo storico, nientemeno.
Con questo lavoro, Marchesi effettua dunque un “ritorno ai principi” – come esplicitamente rivendicato nel paragrafo finale del testo – attraverso una sorta di catabasi nella complessità del dibattito che ha opposto negli ultimi cinquant’anni le filosofie dell’emancipazione e le teorie critiche. Il taglio peculiare assegnato all’analisi è ciò che permette a questo ritorno di assumere dei tratti fortemente innovativi, poiché approcciato a partire da una prospettiva – quella del conflitto e del suo ruolo – che lo aggiorna proprio in ragione dei confronti inediti che essa permette di effettuare. Eppure, di ritorno ai principi si tratta: e, cioè, di una prospettiva che, rifiutando la mancanza della forma e l’originarietà del conflitto, pensa alla politicizzazione del conflitto sociale ed economico – l’introduzione dell’asimmetria – come unico modo per produrre forme piene e, così facendo, rendere il conflitto produttivo perché storico, perché in grado di produrre storia. Il conflitto, il politico, vive così soltanto nel movimento che lo rimette a tacere, nell’articolazione che soltanto attraverso un’immunizzazione relativa da esso – nella pienezza di una forma che lo utilizza per avere un riscontro e farsi diacronia – può effettivamente darsi.
L’ennesimo pregio della potenza euristica del percorso approntato da Marchesi è, tuttavia, il fatto che è nelle pieghe del suo stesso discorso che è possibile ricavare un’alternativa. Una linea carsica, composta da strade indicate con rigore per essere politicamente rigettate e da parzialità fin troppo evidenti nella ricostruzione di alcuni autori, ne disegna i contorni: quelli della possibilità di una politicizzazione continua dei conflitti che attraversano il sociale al fine di reintrodurre asimmetria, storicizzare il politico, senza per questo richiudere immediatamente il conflitto nella forma, senza metterlo a tacere. Nel Foucault deliberatamente ignorato della cura di sé e soprattutto del contrasto vitale tra parresia e democrazia, nel Badiou della politica come «paziente vedetta del vuoto che istruisce l’evento» che «gioca la sua esistenza nella capacità di stringere con il vuoto […] un rapporto essenzialmente altro da quello dello Stato», giace un altro modo di pensare il conflitto del politico, che all’opzione ancora orgogliosamente moderna di Marchesi – che alla ferita del conflitto politico e del politico come conflitto, al vuoto delle nostre comunità, oppone ancora una, seppur consapevole e parziale, immunizzazione – risponde con la possibilità di tenere aperta quella ferita: non più come origine , tuttavia, ma come limite , come lo spazio di cui abbiamo bisogno per muoverci . L’ansia della forma nasconde, in altri termini, la paura della vulnerabilità: nella possibilità di non tentare più di rimarginare quella ferita, ma di averne cura – sostituendo, alla politica della mancanza o dell’origine, una politica della cura e del limite – giace, a parere di chi scrive, una prospettiva all’altezza – formula oggi meno che mai retorica – di questi tempi. Ed è forse nella capacità di dischiudere dibattiti come questo che possiamo riconoscere il valore più importante del testo di Marchesi, inattuale e perciò stesso impeccabilmente contemporaneo nel partire dall’assunto, quanto mai vero oggi, che il conflitto sia davvero tutto ciò che ci resta.