Recensioni / Attivare potenze inespresse. La scommessa psichedelica

Da qualche giorno potete trovare nelle librerie italiane un libro alquanto curioso. S’intitola La scommessa psichedelica e lo ha curato Federico di Vita, è pubblicato all’interno della eminente collana «Quodlibet Studio. Lavoro critico», dell’editore Quodlibet, i cui testi, sotto la curatela di Ciro Tarantino, vengono sottoposti a valutazione anonima e paritaria, sinonimo di grande affidabilità accademica.
In copertina troviamo dei simpatici fanciulli intenti a versare taniche di LSD-25 in quella che si suppone essere una cisterna. All’interno del volume, sfogliando l’indice, scopriamo essere una raccolta di saggi di differente natura, nei quali quattordici intellettuali (compreso il curatore) italiani affrontano il tema della psichedelia, approcciandolo dai più diversi punti di vista.
Sono (in ordine di apparizione): Peppe Fiore, Francesca Matteoni, Ilaria Giannini, Agnese Codignola, Marco Cappato, Vanni Santoni, Sivia Dal Dosso e Noel Nicolaus, Carlo Mazza Galanti, Federico di Vita, Andrea Betti e Gregorio Magini.
Dream team.
In questi ultimi anni, non c’è dubbio, ci siamo iniziati a riabituare alla presenza, negli scaffali delle librerie, di libri che trattavano l’argomento. Oltre ai grandi classici della psichedelia, come Le porte della percezione o Le lettere dello yage, i libri di Michaux e di Artaud, o il celebre LSD. Il mio bambino difficile di Albert Hoffmann, abbiamo cominciato a scorgere titoli meno canonici nell’ambito dell’editoria generalista. Nel 2018 Mondadori ha pubblicato Moksha, che raccoglie la maggior parte degli scritti di Aldous Huxley riguardanti gli psichedelici; lo stesso anno UTET pubblica LSDLSD, per l’editore Giometti & Antonello: il carteggio tra Jünger e Hoffmann. Nel 2019 Adelphi pubblica Come cambiare la tua mente di Michael Pollan, libro diventato presto di culto, data l’enorme fama del giornalista e dell’editore stesso, qui in Italia; a distanza di qualche mese viene anche ritradotto e ripubblicato Il cibo degli dei, testo fondamentale di uno degli intramontabili punti fermi della psichedelia mondiale degli ultimi decenni, Terence McKenna. Il 2020 invece è l’anno di Terapie psichedeliche (Shake edizioni) di Adriana D’Arienzo e Giorgio Samorini (di sicuro il rappresentante italiano più conosciuto e più incisivo sui temi della psichedelia, assieme a Gilberto Camilla).
E questi sono solo alcuni dei titoli più importanti usciti negli ultimi anni. Cosa sta succedendo?
Succede che quelli che stiamo vivendo sono gli anni del cosiddetto Rinascimento psichedelico, ovvero una nuova ondata d’interesse verso queste sostanze, da molteplici prospettive; dopo decenni di silenzio e cattiva informazione, a seguito della celeberrima esperienza sociale e politica che, intorno agli anni sessanta e settanta, ebbe luogo in tutto il mondo e in particolare negli Stati Uniti d’America.
Il libro di cui stiamo parlando, tuttavia, ha qualcosa di differente rispetto ai testi che ho rapidamente passato in rassegna per dare un po’ l’idea del fenomeno dal punto di vista editoriale e letterario.
La scelta di invitare a parlare diversi autori, personalità così distanti e con prospettive di studio così differenti, deriva – ci racconta il curatore nell’introduzione – da un’esperienza di vita (descritta poi approfonditamente in uno dei saggi della raccolta). Questa esperienza concreta ha permesso al curatore di rendersi conto dell’esigenza che si è trovato poi ad affrontare nella costruzione di questo saggio composito, ovverosia l’intenzione di raccontare «cosa fanno» le sostanze psichedeliche e non solo – come è stato fatto da molti in precedenza – «cosa sono». Il «cosa fanno» non viene interpretato in questo libro nel suo senso pratico: «quali sono i loro effetti» (cioè una delle caratteristiche – abbondantemente raccontate – di «cosa sono» le sostanze psichedeliche), ma piuttosto l’idea era di raccontare quali conseguenze, quali effetti hanno avuto o possono avere su di noi, sulla nostra società, sulle nostre abitudini, sulla letteratura, la politica, l’arte, l’esistenza stessa.
Ho il grande piacere di intervistare il curatore – già prefatore de Il cibo degli dei e autore di diversi articoli e saggi sull’argomento –, insieme ad alcuni degli intellettuali presenti nel libro. E vorrei iniziare subito con una domanda semplice e diretta:

Cos'è la psichedelia e cosa vuole significare questo libro nel più grande discorso in cui si colloca e che abbiamo pocanzi menzionato per grandi linee?
Federico di Vita: È una domanda piuttosto vasta. La psichedelia è l’insieme di sostanze che, stando all’etimologia, sono in grado di “manifestare la mente”, e che – dato molto interessante – sono da sempre usate dal genere umano, a tutte le latitudini. Malgrado una campagna di stigmatizzazione pervasiva e profondamente tendenziosa cominciata negli Stati Uniti dalla metà degli anni Sessanta, campagna che ha fatto identificare (erroneamente) gli psichedelici con le “droghe pesanti” in grado di creare gravi dipendenze, come eroina e cocaina, nella psichedelia possiamo riconoscere l’insieme di molecole (pure o di sintesi) che sono capaci di provocare uno stato di visione e una serie di profonde e sorprendenti riflessioni in chi ne fa uso, nonché i movimenti culturali, artistici e spirituali che da sempre si addensano in seguito all’assunzione e alla conseguente riflessione su queste sostanze. Viviamo in quello che è definito Rinascimento psichedelico, un periodo di importanti scoperte scientifiche che testimoniano come questa classe di molecole sia anche una delle più promettenti dal punto di vista farmacologico (non solo infatti gli psichedelici non danno assuefazione, il che rende paradossale il loro incasellamento accanto a droghe che provocano questi effetti, ma sono addirittura curativi: vengono studiati per il trattamento di depressione, per alleviare la paura della morte nei malati terminali, per la cura del disturbo da stress post traumatico, della cefalea a grappolo e via dicendo), e i risultati sono così eclatanti da aver spinto alcuni stati a depenalizzarli o addirittura legalizzarli (come è successo appena pochi giorni fa in Oregon, USA). Ma sarebbe sbagliato confinare la psichedelia all’ambito del trattamento medico (che ha a sua volta delle controversie), perché gli psichedelici offrono anche molto altro, e in diversi ambiti. Il tentativo che facciamo in questo volume è quello di mostrare ai lettori italiani la vastità del campo che questa classe di sostanze è in grado di investire, compresi i paradossi e le contraddizioni che immancabilmente sprigiona. Il nostro è un tentativo di creare un dibattito culturale intorno a questo tema nel nostro Paese, provando a definire – forse per la prima volta in Italia – vastità della potenziale influenza e relative controversie.

Il testo si apre con una «Breve storia universale della psichedelia» scritta dal curatore stesso, nella quale si ripercorre la storia millenaria delle sostanze. Ho capito il perché di questa introduzione storica ascoltando un’intervista in cui ci si interrogava sui lettori che avrebbero potuto imbattersi in questo libro. E mi sono detto che effettivamente, nonostante si scavi a fondo negli argomenti trattati, questo libro riesce anche a dare un’infarinatura generale persino a chi non conosce nessun dettaglio di questa storia. Per chi è pensato questo libro, chi è il lettore ideale che dovrebbe proprio incappare in questo affascinante viaggio culturale e storico nel sottobosco di quelli che un tempo venivano chiamati allucinogeni?
FdV: Il libro è pensato sin dall’inizio come un messaggio corale e ampio, per cui ho chiamato a intervenire una serie di persone diverse, esperte di settori a volte molto lontani tra loro (ci sono scienziati, politici, critici letterari, memer, scrittori, raver, giornalisti e via discorrendo), proprio per mostrare quanti ambiti la psichedelia è già in grado di modificare nel profondo, mentre forse neanche ce ne rendiamo conto. Questo fatto – al di là delle opinioni dei singoli autori, che possono anche divergere – già di per sé costituisce un messaggio politico, stiamo dicendo ai lettori che questa cosa è importante nella definizione della nostra realtà già ora, che influenza il nostro mondo e che può farlo con sempre più forza. Questo fatto tuttavia ha naturalmente spinto il progetto in profondità in molte direzioni differenti – proprio come speravo che accadesse – ma al contempo poteva farne un libro per chi la grammatica psichedelica la mastica già almeno un po’, così quasi subito ho pensato che fosse necessaria una ampia introduzione in grado di raccontare, nel più breve spazio possibile ma in modo esaustivo, la millenaria storia del rapporto tra esseri umani e sostanze psichedeliche. Credo che sia sufficiente a far capire di cosa stiamo parlando anche a chi non conosca bene la materia. Per chi invece voglia approfondire suggerisco la lettura di due libri in cui i temi che tocco in quella introduzione (almeno, gran parte di quei temi) sono trattati in modo più esaustivo: Come cambiare la tua mente di Michael Pollan e LSD. Storia di una sostanza stupefacente di Agnese Codignola.

Una delle cose che mi hanno colpito maggiormente de La scommessa psichedelica è proprio la sensazione di rischio e di pericolosità che emerge dalla lettura. Per la quale penso che inserire la parola «scommessa» nel titolo sia stata una scelta davvero azzeccata. Non è un libro di propaganda al consumo, affatto! Vengono raccontate, anzi, diverse questioni delicate, riguardo le quali bisognerebbe stare molto attenti.
Uno dei saggi più critici in questo senso è quello di Agnese Codignola; laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche, dopo anni nel campo della ricerca, oggi si dedica completamente al giornalismo e alla divulgazione. È stata autrice, come ricordavamo nell’introduzione, di LSD (UTET, 2018) e prefatrice de Il volo magico (il Saggiatore – altro libro importante pubblicato nel 2020) oltre che di molti altri articoli e saggi critici sull’argomento. Il suo interessante contributo a questo libro s’intitola «L’antridepressivo di Donald Trump» e racconta l’avvincente e preoccupante storia dell’esketamina e della ketamina. Portando alla luce una di quelle faccende molto rischiose alle quali dobbiamo necessariamente fare attenzione (e che non racconteremo qui per lasciarvi il piacere della sorpresa durante la lettura).
Quali sono i rischi e le criticità più urgenti della psichedelia e dell’uso degli psichedelici nel contesto del Rinascimento che siamo a vivere nei tempi odierni?

Agnese Codignola: Il Rinascimento è anche una moda, e il suo successo si sta estendo a macchia d’olio in tutto il mondo. Quando si è iniziato a capire che lì poteva esserci una risposta a problemi giganteschi come quello della depressione, non pochi hanno fiutato il business. Da anni cliniche private negli Stati Uniti e in Europa propongono trattamenti con psichedelici, microdosing di LSD e altro non riconosciuti da nessuna autorità scientifica o sanitaria, e spesso senza che vi siano prove sufficienti. In questo contesto si inserisce anche la storia preoccupante dell’esketamina. Preoccupante, ed emblematica. Poiché, infatti, la ketamina non è brevettabile, Johnson & Johnson ha trovato il modo di farne una forma brevettabile, e ci ha costruito su un business che promette di essere assai redditizio. Con tutti i dubbi di cui parlo nel testo. E che si ritrovano anche per altri psichedelici, anche se, finora, questa è l’unica sostanza ad aver varcato la soglia dell’approvazione e quindi dell’introduzione in commercio. Questo pone almeno due tipi di problemi. Sulla sicurezza ed efficacia del farmaco. Ma, soprattutto, sul danno che una vicenda come questa potrebbe arrecare a chi studia seriamente le potenzialità terapeutiche di queste sostanze. Lo abbiamo già visto: chi conosce la storia degli psichedelici sa che prima ci furono le cliniche, poi gli eccessi, quindi i divieti. Sarebbe il caso di non ripercorrere quelle strade, e di fare di tutto affinché materie così delicate non siano oggetto di strumentalizzazioni economiche e politiche.

La seconda parte del saggio è dedicata agli studi sulla ketamina e vengono illustrate le moltissime possibilità di questa sostanza, come di tutti gli psichedelici, nel contrastare un certo tipo di patologie. «L’efficacia» degli psichedelici, scrive Codignola, «è dovuta a una riscrittura dei circuiti nervosi ripetitivi che inducono a riprodurre associazioni e comportamenti distruttivi, e alla conseguente nuova visione del mondo, e del proprio rapporto con esso». Quali possono essere i benefici dell’uso consapevole di queste sostanze e come effettivamente possono aiutarci a contrastare dipendenze, ansia, depressione e altre patologie tipiche di questi tempi?
AC: È ormai dimostrato che l’LSD e il principio attivo dei cosiddetti funghi magici, la psilocibina, sono efficaci, soprattutto se usate nell’ambito di un programma terapeutico completo, che preveda anche una psicoterapia, contro forme di depressione sia reattiva (per esempio in chi ha una malattia terminale) che maggiore, contro le quali le terapie convenzionali sono largamente insoddisfacenti. Anche contro le dipendenze i dati iniziano a essere consistenti. Altre sostanze, più problematiche perché meno sicure e accompagnate da tossicità note (per esempio a carico di fegato, sul cuore e sui reni), come l’ecstasy o MDMA e la ketamina sono in via di approvazione (da parte della FDA) per il disturbo da stress post traumatico e altre condizioni e patologie. Ciò che emerge è comunque un’enorme potenzialità terapeutica per disturbi e malattie che colpiscono centinaia di milioni di persone nel mondo. E una nuova era nella psicofarmacologia, che prende l’avvio dal fatto che tutte hanno meccanismi d’azione diversi rispetto alle terapie usate oggi, e potrebbero quindi diventare i capostipiti di nuove classi di farmaci.
A patto però di utilizzarle nel modo giusto, e solo dopo che i dati saranno consolidati, e i protocolli – sempre complessi e articolati – stabiliti a livello internazionale, e seguiti con rigore. Torno a dire: abbiamo già visto dove porta un utilizzo senza regole. E non vorremmo tornare al Medio Evo, dopo aver vissuto un Rinascimento.

Nel saggio «Fantadroghe e pseudorealtà. Su alcune interpretazioni letterarie della psichedelia» Carlo Mazza Galanti ripercorre alcuni dei picchi più alti e interessanti della letteratura “psichedelica”. Da Henri Michaux ad Aldous Huxley, Philip K. Dick, Guido Morselli, George Saunders, fino ad arrivare a Mark Fisher e Michael Pollan.
Un excursus appassionante di utopie e distopie da brividi.
Mazza Galanti, d’altronde, è stato uno dei primi a recensire Come cambiare la tua mente Nel suo contributo a La promessa psichedelica, Carlo Mazza Galanti, – anche attraverso le opere di questi grandi autori – espande e approfondisce quanto aveva già portato alla luce nella recensione al libro di Michael Pollan.
Parlando dell’uso terapeutico delle sostanze, sostiene che «affidare alle modificazioni neurologiche e alle cure degli psichiatri simili patologie significa neutralizzarne le potenziali criticità in nome di una “risoluzione individuale di problemi sistemici” capace soltanto di spostare più avanti il problema». Qual è il rischio che corriamo nel pensare che queste sostanze siano in grado di liberarci – tramite l’uso terapeutico – dalle molte patologie che sistematicamente invadono la nostra società?

Carlo Mazza Galanti: Il rischio è anzitutto quello di non cogliere l’origine sociale di quelle patologie. Invece di socializzare la medicina si medicalizza sempre di più la società. La depressione non è una malattia individuale, ma anzitutto un problema sociale, collettivo, il depresso si sente solo ma concentra in sé una massa di solitudini: la causa del suo male è il modo in cui funziona la nostra società e non si risolverà somministrando a ogni singolo depresso una nuova droga, fosse anche una sostanza affascinante e poliedrica come sono gli psichedelici. Lo stesso vale per le dipendenze diffuse, e per il nostro rapporto malsano con la morte (e quindi con la vita), che nel verbo della psichedelia clinica, per così dire, dovrebbe essere aggiustato da queste sostanze. Mi è sempre sembrato molto ingenuo l’assunto di Timothy Leary secondo cui basterebbe che tot persone assumessero LSD per innescare una rivoluzione. Ma almeno lui non riduceva il campo di azione di queste molecole a quello del laboratorio scientifico e della somministrazione medicamente controllata. Nello sviluppo delle nuove ricerche, più che un orizzonte di emancipazione io vedo un’espansione del controllo e della delega tecnologica sulle nostre vite. Ora è arrivato il momento della mente: gli stati di coscienza diventano oggetto di sperimentazione scientifica e quindi di manipolazione tecnica, biochimica. All’interno di questo orizzonte di sviluppo queste droghe potranno diventare potenti psicofarmaci o strumenti di evasione di massa, e chissà cos’altro ancora. Ma le chiavi delle porte della percezione finiranno dritte dritte in mano ai tecnocrati e ai pifferai magici dell’industria culturale. Controllo medico o mercificazione. Siamo parecchio lontani sia da William James che dalla Summer of Love.

Nello stesso saggio Mazza Galanti scrive che «La psichedelia offre una chiave di accesso e un punto di osservazione privilegiato sulle strutture interne della percezione permettendoci di analizzarle ed eventualmente elaborare nuove configurazioni. Essendo i mezzi di comunicazione di massa, come Dick racconta in molte sue opere, altrettanti esperimenti di costruzione allucinatoria della realtà, l’assunzione di sostanze capaci di renderci più consapevoli di come funzionano simili allestimenti di mondo assume un valore pericolosamente sovversivo». Sottolineando l’idea di una possibilità, una chiave d’accesso alla costruzione di una realtà nuova, differente, sovversiva per l’appunto. «Se davvero è in corso un Rinascimento psichedelico, sarà sul piano degli immaginari, prima che nei laboratori o nei parlamenti, che se ne deciderà il destino» così termina il saggio. Quale potrebbe essere storicamente e concretamente questa «chiave d’accesso» e come si configura la possibilità di combattere per il destino della psichedelia – e più in generale della nostra specie – sul «piano degli immaginari»?
CMG: Non esiste una sola chiava di accesso. Sono abbastanza certo che il controllo e la definizione tecnologica degli stati di coscienza sia un destino quasi inevitabile della nostra specie. La questione è dunque in che direzione andrà, chi deciderà come dovremo modificare artificialmente la nostra coscienza, il nostro umore, la nostra percezione del mondo e perché, per qualche scopo, secondo quali modalità etiche ed estetiche. Dick in alcuni suoi testi mostra un mondo dove questo controllo psichico è ormai diffuso, e dove esiste una resistenza clandestina che cerca di strappare la manipolazione della mente al potere politico. Leary (ancora lui) sosteneva che l’LSD potesse funzionare per disinnescare i “giochi” sociali nei quali siamo invischiati. Ma se l’LSD e affini diventassero parte della costruzione di questi stessi giochi diventerebbe difficile continuare a esaltarli come sostanze “sovversive”. Anche perciò, a differenza di altre sostanze (la cannabis per esempio), non sono affatto sicuro che la legalizzazione sia un traguardo auspicabile. Un inizio di soluzione, o di azione utile, sarebbe per esempio un dibattito serio e criticamente attrezzato intorno a questi temi, lasciando che gli psichedelici non siano supinamente annessi alla declinazione terapeutica e/o performativa delle ultime ricerche. Allargando il più possibile al quadro politico, sociologico, scientifico, artistico, antropologico. In America e altrove, per adesso, le voci di questo tipo mi sembrano minoritarie. Nel mio articolo, in nota, ho segnalato il libro sugli ormoni di Beatriz Preciado perché, anche se non tratta di psichedelici, mi sembra andare in una direzione interessante. D’altronde credo che il modo migliore di affrontare questi argomenti non sia quello “psichedelicentrico”, magari animato da un’adesione fideistica alle potenzialità miracolose di queste sostanze: mi sembra più utile osservarle in uno spazio più ampio e complesso, accanto ad altri elementi non soltanto chimici: tecnologie, input e stimolazione estetiche di vario tipo, modalità relazionali, eccetera. La letteratura, la fantascienza, lo fa, lo ha fatto: è quello di cui parlo nel mio saggio.

«Viviamo in tempi interessanti. La tecnologia sta portando alle estreme conseguenze, con risultati paradossali e paralizzanti, alcuni miti e concetti fondativi (identità, anima, libertà, tempo, morte) e quello che ci appare dinanzi, in estrema sintesi, assomiglia al paesaggio di una guerra spirituale che – con sprezzo dell’ingenuità – potremmo definire come una battaglia tra le forze dell’apertura e le forze della chiusura».
Con queste parole si apre il sontuoso saggio di Edoardo Camurri, «Gnosticismo acido», nel quale l’autore ricompone una sorta di teologia filosofica, sotterranea e psichedelica, attraversando il pensiero di autori la cui opera ha un’importanza fondamentale, soprattutto oggi. Percorriamo un lungo sentiero che va da Massa e potere di Elias Canetti a Realismo capitalista di Mark Fisher, sprofondiamo nelle parole di Kojève e Culianu, Dick, Zolla, Aldous Huxley e Timothy Leary, incontriamo John C. Lilly e Al Hubbard e ci perdiamo nelle loro appassionanti biografie, vissute ai limiti del possibile. Ne emerge una dotta ed eclettica mappatura che sul finale viene illuminata di senso dalla misterica macchina letteraria psichedelica e divinatoria di James Joyce, il Finnegans Wake.
Questo atto fondativo e compositivo di Edoardo Camurri – già curatore di Moksha, oltre che operatore culturale instancabile e multiforme – ha visto i suoi primi germogli in una rubrica che ha tenuto sul Foglio dal titolo «2666». Anche lì si diceva che viviamo in tempi interessanti ed è in atto una vera e propria guerra immaginale. Una battaglia tecno-sciamanica che deciderà le nostre sorti. Come possiamo combatterla – in cosa può consistere il «contro-rituale» che Mark Fisher stava cercando di teorizzare nell’ultimo e incompleto lavoro al quale si dedicò prima di morire, Comunismo acido – e soprattutto da che parte stiamo, noi?
Edoardo Camurri: Noi stiamo sicuramente dalla parte della liberazione dionisiaca, della liberazione dell’uomo da ogni forma di controllo, sorveglianza e qualunque sistema totalitario.
Il senso di questa battaglia è che esiste una struttura – quella che io chiamo Macchina algoritmica – che è costruita in modo tale, non solo da sorvegliarci, non solo da prevederci ma anche – portando alle estreme conseguenze le premesse del suo funzionamento – a sostituirci. È fondamentale provare a rendersi irriconoscibili, quindi provare a fregare in qualche misura la macchina e l’algoritmo.
Questo come primo passo. Perché il meccanismo della macchina funziona sulla: sorveglianza, previsione e infine sostituzione. Sorveglianza perché (e questo non lo dico solo io ma lo dicono i grandi studiosi della contemporaneità) siamo perennemente sorvegliati dal sistema digitale. Nel senso che controlla ogni nostro movimento, ogni nostro stato di salute, ogni nostro stato mentale, ecc. Attraverso la raccolta di dati che noi continuamente forniamo alla struttura digitale, alla Macchina algoritmica.
Nello stesso tempo questa capacità di sorvegliarci serve per prevederci, quindi per prevedere i nostri comportamenti e per costruire un sistema di pubblicità, di propaganda e di controllo. Più noi siamo previsti dalla Macchina più la Macchina, ovviamente, è in grado di controllarci.
Ma come fa la macchina a sorvegliarci e a prevederci? Perché noi le regaliamo un flusso di dati continuo. A sua volta la Macchina ci regala – in discesa – un flusso di dati che ci confermano e ci condizionano sempre più in quello che noi siamo. È la solita vecchia questione della bolla dentro cui la Macchina ci condanna. Qual è il punto? Che dal punto di vista logico, nel momento in cui la Macchina ci sorveglia e ci prevede noi smettiamo di esistere come individui liberi, sovrani e imprevedibili. Sempre più la Macchina condizionerà i nostri comportamenti. Quindi si sospenderà, a un certo punto, il nostro flusso di dati interessanti in ascesa, conterà soprattutto il nostro doppio digitale, cioè il doppio che l’algoritmo crea su di noi. E a quel punto, se conta di più il nostro doppio digitale, siamo sostituiti. Siamo sostituiti da una copia, una copia algoritmica. Sulla quale si esercita questa sorta di voodoo digitale nel cyberspazio. E questa è la conseguenza logica della macchina algoritmica. Ora, dinnanzi a tutto questo bisogna trovare delle strategie per poter provare a rompere questo meccanismo perché è un meccanismo infernale.
Verso la fine del saggio Camurri scrive: «Finnegans Wake ci ha insegnato a usare l’immaginazione per scatenare e trasformare in atto le possibilità racchiuse in potenza dal linguaggio ordinario. In un certo senso, parliamo della stessa potenza che Mark Fisher cercava di risvegliare nelle possibilità ancora inespresse dalla cultura psichedelica». Di cosa parliamo quando ragioniamo attorno a queste «possibilità ancora inespresse», da «risvegliare», e che ruolo potrebbe avere il Finnegans Wake in questa storia?
EC: Mark Fisher ci spiega – in Realismo capitalista e in tutto il suo lavoro ¬– fondamentalmente che siamo tutti incastrati nella storia, cioè che ormai la composizione della società contemporanea è fatta in modo tale che non è più pensabile una futura radicale alternativa a ciò che noi siamo. Il discorso sul sistema algoritmico è uno strumento potentissimo per confermarci questa situazione.
Mark Fisher, negli ultimi anni della sua vita ha avuto una grande intuizione: che siamo condannati a ripetere il passato. Perché non è più possibile una speranza di futuro alternativo radicale e quindi siamo condannati a questi fenomeni che vanno sotto il titolo di retromania e simili. Bene, se siamo condannati a questo noi dobbiamo sfruttare il passato come una specie di Cavallo di Troia per costruire futuri alternativi. E quindi lui ha visto, per esempio, nella controcultura psichedelica americana, un momento del passato da ripetere. Su cui però bisogna lavorare per sollecitare potenze non ancora espresse da quel momento.
Mi spiego meglio: Mark Fisher fondamentalmente applica al concetto di Storia un concetto dell’evoluzionismo, cioè il concetto di tropismo. Sono stati fatti degli esperimenti, negli ultimi anni, in cui per esempio sono riusciti, partendo da dei pulcini e dei polli, a far emergere tratti atavici dei dinosauri. La figura del “pollosauro”, cioè: animali come pulcini, come gli uccelli, eccetera, hanno geneticamente dentro di sé le informazioni per potere diventare dinosauri. Sono uccelli ma in potenza sono dinosauri.
Il discorso di Fisher è analogo: ogni momento storico passato non ha esaurito tutte le sue possibilità di espressione, ne ha scelta una. Ne ha scelta soltanto una ma le altre sono ancora in potenza, inespresse. Si tratta quindi, secondo Fisher, di riattivare potenze sepolte all’interno di momenti storici, visto che siamo condannati al passato, provare a riattivarle in altre direzioni possibili. E questo è un concetto davvero, davvero affascinante e potente. Cosa c’entra tutto questo con il Finnegans Wake?
James Joyce ha scritto un libro che lui stesso definiva il libro del futuro. Utilizzando un linguaggio di cui non siamo ancora in grado di conoscerne fino in fondo la sintassi, ha scritto un libro di cui non esiste critico e studioso al mondo che sappia realmente cosa vi accada dentro. Perché è interessante Finnegans Wake? (Attenzione: Finnegans Wake non è legato a stretto nodo col discorso di Mark Fisher quanto piuttosto al discorso sull’immaginazione). Perché – esattamente come Fisher prova a portare in atto potenzialità ancora inespresse di momenti del passato – James Joyce in Finnegans Wake prova a riportare in atto significati ancora inespressi dalle parole della lingua che noi usiamo. I giochi linguistici che James Joyce produce nel Finnegans Wake sono, in questo senso, macchine per pensare, ma macchine libere. Il Finnegans Wake non accade nella pagina, accade nello spazio intermedio che c’è tra la pagina e il lettore. Le parole che usa Joyce nel Finnegans Wake sono fluttuanti. Non hanno mai un significato determinato ma il significato si modifica a seconda della percezione e della storia di ciascun lettore. Non sono parole ferme, sono parole che fluttuano, esattamente come qualunque immagine che vediamo durante un viaggio psichedelico. E quindi sono parole che si liberano dall’essere condannate al proprio significato, e che sono portatrici di significati nuovi che il lettore può portare in atto. Ecco, il Finnegans Wake da questo punto di vista rappresenta perfettamente il lavoro che Mark Fisher ha tentato di fare e questo mostra perché è stato uno dei libri chiave della cultura psichedelica americana.

Un’altra caratteristica molto interessante de La promessa psichedelica è la presenza diffusa di quelli che Peppe Fiore, nel saggio che apre la raccolta, descrive sotto il nome di trip report: resoconti delle esperienze avute tramite l’uso di sostanze psichedeliche. Uno di questi da l’abbrivio al testo di Francesca Matteoni: «Piante sacre: ayahuasca, sciamanesimo e coscienza ecologica». Matteoni è poetessa e si occupa di storia e folklore, e ha pubblicato diversi saggi sull’argomento. Mi colpisce subito come in questo testo – e nell’esperienza che vi è raccontata – viene subito chiarito che il punto di vista non è quello di chi cerca «una cura»; gli elementi che attraggono l’autrice sono: «l’aspetto sciamanico, poetico, intrinsecamente rischioso celebrato da certi cacciatori di immagini e di storie; la qualità mortifera per cui chi prende una pianta divina, enteogena, scatena in sé la morte allo scopo di salire lungo la liana ed entrare in altri mondi» (corsivo mio). Si affronta, nel saggio di Matteoni, una prospettiva più spirituale e mistica, approcciando ciò che potrebbe essere denominato come «dissoluzione dell’ego» e lo si esplora da un punto di vista ben preciso. Cosa hanno a che fare le sostanze con lo spazio spirituale e per quali ragioni è importante porre l’attenzione sull’uso che se ne potrebbe fare in questo senso e sulle conseguenze enormi che questa modalità d’uso potrebbe evocare?
Francesca Matteoni: La teoria per cui l’uso di piante e funghi sacri o magici, sia stato fondamentale nello sviluppo di un sentimento religioso, volto all’immateriale o invisibile fuori da noi, non è certo nuova. Terence McKenna ne fu un grande sostenitore e promulgatore (si veda il suo Il cibo degli dei), più disgraziatamente lo storico delle religioni John Allegro si rovinò la carriera sostenendo nel suo Il fungo sacro e la croce che Gesù Cristo non fosse altro che un nome in codice, un’entità simbolica sotto cui si nascondeva un più antico culto della fertilità, al cui centro c’era l’Amanita muscaria. Le idee di McKenna trovano un certo riscontro nella pratica e nelle testimonianze di tanti guaritori, prima fra tutti Maria Sabina, la curandera di Oaxaca in Messico, divenuta sua malgrado famosa nella cultura psichedelica degli anni Sessanta. Il concetto più interessante è senz’altro quello per cui è il fungo (o la pianta) a parlare dentro la persona, amalgamando la sua voce al linguaggio umano. Da qui la dissoluzione dell’io, o meglio il suo scioglimento in un coro. Potremmo chiamare questo una manifestazione dello spirito – lo spirito di un qualche divino irraggiungibile, lo spirito di un’entità mediana fra la terra e il cielo, oppure lo spirito vegetale, che è la variante che preferisco: uno spirito concreto, che viene a dirci: “io, noi, esistiamo”. Se le piante sacre hanno un ruolo importante nella spiritualità non è perché ci mettono in contatto con un dio distante, ma perché ci ricordano che il mondo è vivo, ben oltre noi stessi. Abbiamo la pretesa di controllare tutto, compreso quello che ingeriamo, pretesa basata su convinzioni più fragili di quelle che portano alcuni ad adorare dee, dei e mostri alati. Le sostanze ci ricordano che ogni nostro incontro con loro è una collaborazione, che perfino noi possiamo essere utili e utilizzabili, invertendo la nostra percezione antropocentrica del cosmo. È il confine fra quanto pensiamo di abitare uno spazio e quanto diveniamo uno spazio abitabile. Penso a un’immagine molto forte e nota ai cristiani: la conversione di San Paolo dipinta da Caravaggio, dove il futuro apostolo è letteralmente schiacciato dalla luce divina. È estatico, esce da sé, perché si dimentica del sé. Quel quadro ci dice che ogni fede comincia con uno spossessamento. Non vedo significative differenze fra quell’episodio e il contatto con una pianta che dissolve le nostre convinzioni, allarga la coscienza, sembra portarci altrove. Perché di fatto ci porta altrove. Nell’altrove che siamo meno abituati a concepire: il qui, il presente con le sue molteplici esistenze spirituali e fisiche, indipendenti dall’umano, perfino inutili all’umano, testimoni per se stesse e la loro dignità.

Già nel titolo del saggio sono racchiusi i passaggi logici del ragionamento di Matteoni: «ayahuasca, sciamanesimo e coscienza ecologica». Per capire la «qualità mortifera» dell’ayahuasca, di cui si diceva sopra, è essenziale, secondo Matteoni, «comprendere chi è lo sciamano, come lo si diviene e in che misura le tradizioni sciamaniche si adattano, mutandosi, al contemporaneo». Per fare questo salto concettuale l’autrice si affida al pensiero di Michael Harner che ha esposto, nel suo paradigmatico La via dello Sciamano (Edizioni Mediterranee, 2009), «l’idea di core shamanism, ovvero sciamanesimo transculturale, non relativo esclusivamente a date etnie e tradizioni, ma appartenente a tutto l’umano, e quindi da chiunque praticabile». Lo sciamanesimo sarebbe quindi una via predestinata e naturale verso una più ampia coscienza ecologica. Come può svolgersi questo processo, e quale potrebbe essere il ruolo delle sostanze, dentro un movimento di riscoperta delle nostre qualità sciamaniche e di un più alto grado di consapevolezza ambientale?
FM: Come ho scritto la parola sciamanesimo è un compromesso, un concetto che abbiamo mutuato da tradizioni artico-siberiane di cui si è saputo relativamente poco fino a due, tre secoli fa, e che ora si è trasformato in un nuovo animismo, diffuso in diverse pratiche spirituali contemporanee. Vorrei evitare generalizzazioni e anche una visione del mondo, definita sciamanica, che si basi esclusivamente sulla cosiddetta bellezza del tutto o sul potere salvifico della natura. Non c’è nessuna natura là fuori, non più di quanto ce ne sia in quello che siamo, pensiamo, facciamo ogni giorno, persino mettendo in funzione un bollitore per il tè. L’universo pieno di spiriti da ingraziarsi delle culture che definiamo sciamaniche si fondava sulla paura e sulla precarietà dell’essere. Perché così è anche oggi. Non ce lo dimostra la pandemia? Ecco io credo che più di tutto sia salutare riprendere i rapporti con la consapevolezza dell’effimero, del precario, dell’inutile. Allora apprezzeremo lo spirito delle cose in modo diverso e, se proprio vogliamo usare questa parola, guariremo. Le piante sacre ricordano: ascolta, guarda, prendi parte. Dobbiamo avere il coraggio anche di farci spaventare, ma non tanto da un’esperienza psichedelica che non va come vorremmo, quanto dal quotidiano. Non è tutto meraviglioso là fuori, camminare in un bosco significa fare i conti con la sterpaglia, con il fango, con odori sconosciuti. Ma le cose, appunto, sono. Montalianamente “il mondo esiste”. Dello sciamanesimo, che non sempre incorpora l’uso di sostanze e, nel caso artico, ne è pressoché privo, mi ha sempre attratto l’idea di nascere più volte, da madri animali e animalesche, da demoni che bollono le nostre ossa per insegnarci due o tre nozioni di cura. Questo per dire che non sono una fan della quantità. Non credo che consumare più piante sacre faccia meglio che consumare più rosmarino, credo che fare tesoro di quanto accade quando si entra in contatto con la sostanza sia molto più importante. Per imparare anche a sentire quella voce dentro di noi, per allenarci a sviluppare quei sensi in più che si risvegliano durante un’esperienza con l’ayahuasca, per esempio. A oggi sono più interessata alla robinia e ai rovi qua intorno che mi hanno strappato la camicia, per dire, che non a un fungo psilocibinico che cresce in Messico. E non certo perché il secondo non mi attragga… Credo che se limitiamo la nostra attenzione solo a quelle date piante o funghi, non avremo capito affatto il sentiero che provano a indicare. Che assomiglia a una rete tortuosa e vasta, dove gli incontri possono essere sorprendenti e permetterci di vedere bello e prezioso ciò che magari prima ci appariva scontato, brutto, banale.

Il curatore, Federico di Vita, torna in uno degli ultimi saggi della raccolta. Lo intitola benjaminianamente «La sindrome di Stendhal nell’era della sua riproducibilità tecnica» e sostiene fondamentalmente che i festival psytrance siano una sorta di performance artistica, un’istallazione post-contemporanea che nulla avrebbe da invidiare al Muro del Pianto di Gerusalemme: «quel manicomio di luci e musica è il tempio dove si celebra l’acme di questo baccanale del XXI secolo, mentre la psytrance e le installazioni dettano lo spazio e il tempo del sacro – volendo scomodare Eliade – organizzando il caos in esperienza armonica». Un ragionamento estetico impeccabile – benché opinabile – che si conclude con tono minaccioso: «dunque a chi ancora chiedesse se un fenomeno sottoculturale collettivo che genera stati di estasi in serie può definirsi arte, io rispondo di sì». Allora mi sento di chiedere al curatore, alla luce di tutto quanto è stato scritto fino a qui, come è possibile costituire uno o diversi «spazi» e «momenti» – sacri, mi viene da aggiungere – durante i quali, tramite un rituale o una performance artistica o uno studio approfondito – la conoscenza gnostica –, rendere possibile ai partecipanti – gli iniziati – effettuare un’esperienza talmente trasformativa da concederci le armi per combattere quella battaglia immaginale e politica che è in corso in questi tempi strani, interessanti, cruciali per noi e per la nostra sopravvivenza?**
FdV: Non volevo minacciare nessuno! La mia è un’interpretazione di critica dell’arte, mi sono anche dovuto attrezzare non essendo il mio campo di studio, ma informandomi ho appreso che l’arte immersiva e le Gestalt hanno conquistato un riconoscimento nel dibattito ormai da più di cinquant’anni, dunque ho pensato che questa mia intuizione potesse avere la dignità sufficiente per essere espressa. La cosa particolare non è che i festival psytrance valgono culturalmente o artisticamente quanto il Muro del Pianto (o la basilica di Santa Croce o, che ne so, la Gioconda), la cosa singolare è che pur valendo in termini assoluti molto meno (discorso musicale a parte, che poi a parte non è), grazie al particolare stato per il quale sono pensati, cioè per essere esperiti sotto l’influenza di psichedelici, offrono sentimenti di rapimento estetico che sono assimilabili – anzi che sono – la Sindrome di Stendhal, e questo non è un risultato affatto banale, tutt’altro, sono anzi l’unica opera artistica che garantisce di provare quel tipo di esperienza, a patto di immergercisi come supposto dagli “allestitori”.
Il resto della domanda non sono certo di averlo capito, se intendi come sarebbe possibile creare un contesto talmente trasformativo da investire il nostro rapporto col sacro, la risposta è che quei festival già lo fanno, come del resto è stato detto più volte (per non andare molto lontano succede anche nel nostro volume, nel saggio di Chiara Baldini, che precede immediatamente il mio e che è intitolato – direi eloquentemente – Tramonto al tempio. I festival psichedelici e gli antichi culti misterici). Più in generale la potenzialità di dischiudere porte mistiche è presente, come dire, di serie negli psichedelici, e ci si accede quasi certamente nel caso di assunzioni importanti: che portano nel momentum noto per gli psiconauti come “Esperienza Mistica”. Una volta lì non importa poi così tanto essere all’interno di un contesto rituale per contemplare qualcosa che ciascuno riconoscerà a modo suo e che qui per comodità potrei definire come un sentimento di comunione col tutto. Per quanto concerne invece gli strumenti per combattere la battaglia sui piani dell’immaginario e della politica che ci troviamo ad affrontare nei nostri tempi, direi che quegli strumenti sono piuttosto simili al volume di cui stiamo parlando in questa intervista. O almeno, questa era la mia intenzione.

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