Recensioni / Giancarlo Gaeta, un viaggio verso le grandi domande

La presenza storica di Gesù Cristo nella scena di questo mondo determinò uno scossone innanzitutto nella vita delle persone che ne furono coinvolte, al punto che Giancarlo Gaeta, studioso di cristianesimo tra i più insigni e autorevoli nonché biografo e traduttore di Simone Weil, nell’Introito del suo ultimo libro, Il tempo della fine. Prossimità e distanza della figura di Gesù (Quodlibet, pp. 122, 14 euro), in cui raccoglie gli scritti rivisti di sette relazioni nate in occasione delle Settimane Alfonsiane promosse a Palermo dal 1995 da padre Fasullo, si dichiara convinto della funzione, prima ancora che documentaria, drammaturgica dei Vangeli Sinottici, tesi a far rivivere alle generazioni venture l’esperienza profonda e incancellabile del primo incontro col Nazareno da parte dei suoi contemporanei. Un evento che trasformò tali protagonisti in modo irreversibile, sul quale non tardò a crescere uno strato di interpretazioni esegetiche sempre più fitto e intricato, tale da formare la nostra percezione culturale del Cristo rendendo tuttavia proprio per questo la sua realtà umana paradossalmente molto difficile da avvicinare.
I nodi concettuali affrontati da Gaeta in una riflessione intensa, a tratti vertiginosa, partono dall’accusa di follia e possessione rivolta al maestro dagli stessi familitari («E i suoi, udite queste cose, uscirono per impadronirsi di lui; dicevano infatti: È fuori di sé», Marco, 3, 21); s’interrogano sulla richiesta di radicale sequela antimondana che lui impone non soltanto ai discepoli ma di fatto a tutti noi («Seguimi E lascia i morti seppellire i loro morti», Matteo 8, 22; Luca, 9, 60); utilizzano la tradizione pittorica italiana, Leonardo in primo luogo, per rivivere e riattualizzare la Pasqua; si confrontano con l’attesa del regno di Dio conseguente al Venerdì Santo che dovrebbe presupporre uno stravolgimento delle nostre categorie logiche: «La coscienza messianica è disincanto, che toglie ogni carattere magico all’azione… Non si tratta di elevarsi al cielo o di affondare nell’interiorità, ma di sfamare gli affamati; e allora il Regno è presente, come un di più che è tutto… ed appare, spezzati i vincoli sociali, l’essenziale solitudine di ciascuno, il grido di bene e lo stupore per il dono insospettato».
Chiude il ciclo di questi testi vibranti e sapienziali un ritratto a tutto tondo di Michel de Certeau, di cui ricordiamo l’intuizione della “differenza evangelica” oggi tanto più scandalosa nel nostro tempo non religioso. Dovremmo compiere “un viaggio allo scoperto” per dare le risposte giuste «alle grandi domande dell’esistenza» che, come scrisse l’indimenticabile gesuita francese in una pagina ancora utile e produttiva di La debolezza del credere, «la tecnologia non è in grado di cancellare, che nessuna sicurezza ideologica protegge più, e che hanno come senso il rischio stesso di essere uomini».

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