Recensioni / Illusioni in forma di linguaggio

Nel 1956 Karlheinz Stockhausen, appena trentenne e da poco salito alla ribalta della musica seriale, scrisse una delle sue composizioni più straordinarie e innovative, il Gesang derfinglinge in cui, riprendeva un testo dal libro di Daniele: il canto di lode al Signore dei tre giovani condannati da Nabucodonosor a venire gettati in una fornace ardente per essersi rifiutati di adorare una statua d'oro, veniva tradotto in un formidabile insieme di suoni elettronici, che imitano il concerto dei più diversi strumenti voluto dal re babilonese. Capolavoro assoluto della musica del Novecento, il testo del canto è scomposto da Stockhausen in brevi frasi, parole, morfemi che raramente compongono parole di senso compiuto, e si fondono ai suoni degli strumenti elettronici fino a disperdersi nel grido che dissolve le voci angeliche dei bambini.
Le parole del testo biblico finiscono così per disperdere il loro originario significato, caricandosi in compenso di un valore espressivo e di una pluralità di allusioni mnemoniche che riportano, ancora oggi, la memoria del pubblico ai campi di sterminio e alle decine di migliaia di bambini che vi persero la vita. Dieci anni dopo, per vie complesse, lo sperimentalismo sonoro di Stockhausen avrebbe trovato una sorta di eco e di trasformazioni teatrali nelle pièces del giovane Peter Handke e in particolare nel suo primo clamoroso successo Insulti al pubblico (Quodlibet, pp. 200, € 18,00), che appare oggi insieme a altri testi inediti in italiano per l'eccellente cura di Francesco Fiorentino, di certo il massimo studioso in circolazione del teatro tedesco contemporaneo.
Handke, che nel 1966 era noto a pochi solo per il suo primo romanzo, Die Hornissen (I calabroni), esordì in teatro quello stesso anno, su consiglio del suo editore Siegfried Unseld, con un testo diventato immediatamente oggetto di culto: è, in senso stretto, un testo poetologico abilmente strutturato, che rivolta le formule del comune sentire sul teatro e sulle rappresentazioni teatrali in osservazioni, critiche, accuse e battute indirizzate al pubblico, capovolgendo i ruoli come in una seduta psicoanalitica; e non per nulla, sortì subito un effetto liberatorio, come fu evidente già dalla ripresa televisiva della prima, geniale messinscena da parte Claus Peymann. Ma, appena velata, l'intenzione non si esauriva nel mettere il pubblico di una rappresentazione teatrale, concepita come un prologo a tutte le rappresentazioni teatrali esistenti, dinanzi allo specchio deformante e straniante della autocritica del testo. Il punto era trasformare quella critica, quel testo, in una macchina sonora fatta di sole voci, capaci di dissolvere le parole in una composizione musicale e ritmica di formidabile presa.
All'epoca, Handke apparve, ai più consapevoli, come un erede diretto degli esperimenti paradadaisti della «Wiener Gruppe», il circolo di autori che negli anni Cinquanta, ispirandosi alle teorie di Ludwig Wittgenstein, aveva creato un teatro del non senso il cui scopo era smascherare il carattere costrittivo e prescrittivo del linguaggio come strumento dí comunicazione. Ai critici più disarmati, aiutati anche dalla regia di Peymann, quella pièce di Handke apparve invece come un fenomeno pop, il quinto dei Beatles, comunque un autore descrivibile nei termini di paragone ricavati dalla scena musicale più che da quella teatrale.
Entrambi vedevano giusto. Handke - come osserva Fiorentino nella sua densissima postfazione ai testi - costruisce le sue pièces recitate come riflessioni sul parlare, sulla «voce che si rivolge all'altro e manifesta il suo bisogno di essere ascoltata, il suo desiderio dell'altro». Ma al tempo stesso conferisce ai suoi testi la forma di un «concerto rock verbale» per esaltare la forza di fascina/ione del ritmo delle parole e portare alla luce, insieme all'evidenza dell'assoggettamento alle regole e alle convenzioni che agiscono su chiunque utilizzi il linguaggio per comunicare, pensare o esprimersi, anche l'estetica del suo suono e delle sue infinite possibilità di combinazione e ricombinazione. Solo due anni dopo, i Beatles avrebbero eretto a Stockhausen un monumento pop con Revolution 9.
Ciò che legava l'uno agli altri e Handke a entrambi era l'analogo tentativo di forzare i limiti del linguaggio per attingerne le risorse musicali e sottrarlo al suo ordine precostituito liberandone la forza espressiva. In questo modo, l'efficacia estetica della parola giocava contro il suo valore comunicativo, la libertà sonora contro il suo potere prescrittivo e la performance acquistava una forza catartica inaudita. La conseguenza di tutto questo era la sottrazione del linguaggio alla sua pretesa metafisica e all'illusoria capacità di designazione universale: decostruito, svelato nella sua artificiosità e nella vuota consistenza delle sue metafore, il linguaggio finiva dunque per rivelarsi un retorico strumento di potere e di sottomissione, privo di qualsiasi capacità di significazione superiore.
L'invito più volte ripetuto in Insulti alpubbltco è: non aspettatevi che il teatro dia forma a un «altro mondo». «Qui non ci sono due mondi» - dicono gli attori in scena - «il palcoscenico non è un mondo, così come il mondo non è un palcoscenico». La realtà che il linguaggio fa nascere sulla scena è non meno illusoria di quella restituita dalle parole della quotidianità; la rappresentazione di un mondo per mezzo del linguaggio non rivela nulla se non la capacità del linguaggio stesso di dare forma a illusioni pericolose: pericolose perché dietro di esse si annida il potere di coercizione delle parole e di chi quelle parole utilizza con l'intento di valersi della loro formidabile capacità manipolatoria. Per questo, il teatro del giovane Handke conserva la sua attualità nonostante l'indebolirsi postmoderno della consapevolezza per cui la parola non racchiude l'essere, ma solo la sua forma arbitraria e retorica. È un teatro della sobrietà e della demistificazione: un carattere che, a ben guardare, tiene insieme tutta l'opera di Handke. Anche una memoria selettiva tiene a mente i dialoghi degli angeli desiderosi di tornare umani nel Cielo sopra Berlino, girato da Wim Wenders utilizzando testi preesistenti di Handke; o il dolore prosciugato e privo di enfasi di un capolavoro come Infelicità senza desideri, o della Breve lettera del lungo addio. Non ci sono paradisi e nemmeno inferni peggiori di quelli che questo nostro mondo può riservarci. Ciò che rende spesso impercettibile lo spirito terreno, e persino illuminista, che percorre l'opera di Handke è la qualità lirica della sua scrittura, che spesso, molto consapevolmente, si vale di un gesto rilkiano, senza conoscerne tuttavia la trascendenza. Anche nell'ultimo romanzo realizzato da Handke, La seconda spada (ben tradotto da Alessandra Iadicicco per Guanda, pp. 176, € 17,00), la direzione della ricerca non cambia.