Durante questi tempi di pandemia e, soprattutto, di sospensione
delle libertà individuali, la maggior parte degli intellettuali ha
taciuto. Nel suo insieme la società
è apparsa spaventata, imedia hanno soffiato sul fuoco dell'emergenza, mentre la politica occupava ogni spazio moltiplicando norme e divieti. Per giunta, quanti
hanno iniziato ad avanzare qualche perplessità sono stati attaccati
quali "negazionisti": un termine,
va detto, che fu coniato per quegli
storici filo-nazisti che negano lo
sterminio degli ebrei. In altre parole, è stato ed è molto difficile
opporsi a un'onda inarrestabile.
Qualche voce, però, è uscita dal
coro. Liberali e libertari, in particolare, hanno evidenziato come
ogni situazione di crisi sia sempre
una grande opportunitàper il potere. Ma oltre a loro hanno manifestato il loro dissenso anche altri.
Un testo che merita segnalare,
ad esempio, è quello di Giorgio
Agamben (A che punto siamo?
L'epidemia come politica, edizioni Quodlibet,10 euro), che ha raccolto in un volumetto una serie di
interventi di questi mesi. Il libro
è aperto dauno scritto apparso su
il manifesto a febbraio e poi da
altri successivi. La riflessione di
questo pensatore, che da sempre
presta attenzione al pensiero di
Carl Schmitt, è focalizzata in primo luogo sullo "stato di eccezione": sul fatto che ormai la pandemianon è più tanto unaquestione
sanitaria, perché essaè servita soprattutto ariformulare il sistema
di dominio in termini tecnicoscientifici.
I dispositivi della sovranità
Secondo Agamben, gli uomini che
controllano i dispositivi della sovranità «hanno deciso di cogliere
il pretesto di una pandemia - a
questo punto non importa se vera
o simulata - per trasformare da
cima afondo i paradigmi del loro
governo degli uomini e delle cose». Hanno elevato a religione la
scienza e hanno fatto degli esperti
i nuovi sacerdoti, tanto più che da loro sono quasi sempre venuti
inviti a stringere sempre di più le
maglie del controllo.
Già quattro secoli fa Thomas
Hobbesrilevavacome la sovranità
si affermi grazie alla paura e sfruttandola a proprio favore; quella
lezione torna ora di attualità, ma
atrarre beneficio dallanostrafragilità non è un re figlio di un altro
re, ma un apparato politico-burocratico che si appoggia aesperti e
accademiciper dilatare lapropria
capacità di controllo. Il risultato?
Abbiamo accettato di essere confinati in casa, di non accompagnare i nostri morti nel loro ultimo
percorso su questaterra, di rinunciare al lavoro e allavita sociale, di
chiudere le chiese, dinegare istruzione e rapporti sociali ai nostri
figli.
Il virus è da combattere: certamente. Ma Agamben si chiede se
questa battaglia implichi la rinuncia a tutto, fino al punto di cancellare negli esseri umani quanto li
caratterizza (a partire dalla loro
capacità d'incrociarsi durante
l'esistenza) in nome della "nuda
vita": di un sopravvivere che è privato di ogni senso e qualità, limitandosi quasi a una sussistenza
biologica.
È difficile non essere d'accordo
con Agamben su molte delle cose
che dice. Tutti, ad esempio, abbiamo fatto esperienza di come in
questi mesi siacresciuta unacultura del rigetto dell'altro, ormai
ridotto alla condizione di un untore potenziale, un soggetto "da tenere lontano" in nome del distanziamento. I nostri rapporti interpersonali, per di più, sono stati
avvelenati da una tendenza a farsi
delatori nei riguardi di chi durante
il lockdown andava al supermercato due volte al giorno, si spostavadauna parte all'altradellacittà
per fare jogging, pretendevad'incontrare la fidanzata.