Recensioni / Le nostre ferite: una lettura di Simone Weil

Nel pieno di una crisi che corrode ogni singola donna, ogni singolo uomo, fiaccandone i legami comunitari, in una fase storica in cui sembrano consoli­darsi i dispositivi immunitari, la proposta di Rita Fulco - avanzata nel suo re­cente saggio Soggettività e potere - di interrogare gli scritti di Weil a partire dalla nozione della vulnerabilità, iscritta nell'ambito soggettivo e nell'ambito politico, offre punti di appoggio idonei a svincolarci dal guazzabuglio di emo­zioni, percezioni, parole, pensieri, posture dal quale corriamo il rischio di es­sere sopraffatti e pone al centro dell'umano una solidale attenzione all'altro.

In diversi luoghi dei suoi Quaderni la filosofa francese Simone Weil scol­pisce nella nostra mente e nel nostro cuore il significato che ai suoi occhi assume la vulnerabilità delle cose preziose (per esempio i fiori del mandor­lo) in quanto segno dell'esistenza e proprio per questo intrisa di bellezza; al­trove l'associa all'esposizione delle tre parti del nostro essere alla sventura:

La nostra carne è fragile: qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, la­cerarla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi congegni interni. La nostra anima è vulnerabile, soggetta a depressioni immotivate, penosamente in balìa di ogni genere di cose, e di esseri altettanto fragili o capricciosi. La nostra persona so­ciale, da cui dipende quasi il sentimento dell'esistenza, è costantemente e interamente esposta al caso. Il centro stesso del nostro essere è legato alle sue tre parti con fibre tali da risentire delle ferite di ciascuna, anche se non gravi, fino a sanguinare.

In tempi di acuita percezione del nostro essere vulnerabile tornare a leg­gere gli scritti di Weil non può che essere benefico: intorno a questo nodo esistenziale ruota per l'appunto il recente volume di Rita Fulco, Sogget­tività e potere. Ontologia della vulnerabilità in Simone Weil (Quodlibet, 2020), frutto di indagini e studi accurati più che ventennali sull'opera di una filosofa riluttante a ogni sistematizzazione4. Nell'Introduzione l'autri­ce rende esplicita la traiettoria del suo approccio metodologico alla filo­sofia di Simone Weil e dichiara che essa si fonda su linee di ricerca da lei scelte e sviluppate che privilegiano i temi connessi a soggettività e io, a po­tere e politica, a diritto e giustizia, senza trascurare l'"innegabile tensione al trascendente del pensiero weiliano" e la molteplicità di piani che esso investe. Nello specifico itinerario della studiosa queste linee risultano ben scandite nelle tre parti che compongono il volume: si passa infatti, come lei stessa scrive, dalla "questione della decostruzione della soggettività" a quella dell'"umanità dell'umano", analizzando le relazioni di entrambe con il potere (secondo capitolo) e con l'orizzonte giuridico (terzo capito­lo)". Per sfuggire a un esercizio puramente intellettuale e in conformità a una filosofia proclamata dalla pensatrice francese "come cosa esclusivamente in atto e pratica", l'autrice italiana ricorre in modo ingegnoso a cinque "spazi infratestuali" riservandoli a quelle esperienze, immagini e figure esemplari, proposte progettuali di cui nella vasta opera weiliana si reperiscono tracce evidenti, talora inserite in ampie riflessioni o in consi­derazioni più o meno frammentarie, talora germinanti da geniali intuizio­ni o da secche meditazioni, tutte peraltro determinanti sul versante della trasposizione della verità Pur consapevole degli intralci in cui può incor­rere la sua impresa di sistematizzare un percorso filosofico estraneo alla moltitudine di corrnti di pensiero e di categorie speculative dominanti nel Novecento e pressoché irriducibile a un qualsivoglia paradigma, Rita Fulco vi s'inerpica con la sicurezza che le deriva dal suo proprio reperto­rio di ricerche e dalla lunga frequentazione degli scritti weiliani che inclu­de la conoscenza approfondita della vastissima bibliografia critica (saggi e libri) e una lettura divenuta nel corso del tempo sempre più distaccata.

Soggettività vulnerabile, forza e potere
In un contesto socioeconomico appesantito da una crisi che corrode ogni singola donna, ogni singolo uomo e ne fiacca i legami comunitari, in un momento storico in cui all'interno del corpo sociale sembrano consolidarsi i dispositivi immunitari, la proposta avanzata da Rita Flco di interroga­re gli scritti di Simone Weil a partire dalla vulnerabilità iscrivendo questa nozione nell'ambito soggettivo come nell'ambito politico può offrire punti di appoggio idonei a tentare di svincolarci dal guazzabuglio di emozioni, percezioni, parole, pensieri, posture dal quale corriamo il rischio di esse­re sopraffatti. Condivido l'assunto di Rita Fulco che, dopo aver delineato i mutamenti relativi al potenziamento e al depotenziamento del soggetto nella riflessione di Weil, così asserisce: "limitare la riflessione sulla soggetti­vità esclusivamente ai termini persona e impersonale, centrale negli scritti di Londra [. .. ] non sarebbe corretto o, comunque, non offrirebbe un quadro esaustivo". Questo le permette di rintracciare alcuni snodi: fatta propria negli anni di formazione la tipologia kantiana di soggetto, Simone Weil si orienta già negli scritti giovanili su due distinte direttrici, vale a dire una direttrice mistica che si evolverà verso la de-creazione dell'Io, quindi verso la dimensione soprannaturale, e l'altra, "più spendibile in ambito etico-po­litico", che è quella del decentramento dell'Io, attinente quindi al piano naturale. Essendo comune a entrambe la nozione di attenzione, una facoltà il cui addestramento avvia il soggetto - unicamente con il suo consenso - a un progresivo mutamento nello sguardo e all'uscita graduale dalla prospettiva egocentrica, Rita Fulco ne deduce "una possibile via per una [sua] conver­sione [...] poiché metanoia è, innanzitutto, un mutare nous, un mutamento della mente ... ". Larga parte delle argomentazioni a proposito dei percorsi di (de)soggettivazione suggeriti da Fulco si fonda sulla lettura approfondita che Weil compie di alcuni testi sacri orientali ponendoli in correlazione con la tradizione orfico-pitagorica e la mistica cristiana. A mio avviso sono le pa­gine più dense e consistenti del volume, che portano da un lato al "guada­gno teoretico più interessante [...] la possibilità di pensare un io personale ­impersonale" di matrice orientale, legato in particolare alle Upanishad e, dall'altro lato, alla possibilità di preservare la conciliazione fra azione indi­viduale e rispondenza all'universo, fra la parte e il tutto, rintracciabile nella Gita. Un po' più complesse risultano le argomentazioni a sostegno degli errori e orrore dell'io: l'analisi del caso in cui l'io sia distrutto dall'esterno da una sventura estrema, dunque senza consenso, dà a Fulco l'occasione di indicare una sfaccettatura degradata dell'impersonale weiliano, l'orrido im­personale: il soggetto colpito, ridotto a un egoismo vegetativo, un egoismo senza io, può precipitare in "una assoluta inermità, un'esposizione completa della propria debolezza e vulnerabilità", oppure abbrutirsi - trascinato dal solo istinto di sopravvivenza - in una violenza illimitata.
Eppure questa reazione di violenza cieca non insorge in tutti; fa bene Rita Fulco a non trascurare quegli esseri umani che pur sotto i colpi di una sventura estrema riescono a mantenere "dei comportamenti det­tati da sentimenti propri 'all'umanità dell'umano" (per esempio Etty Hillesum) e a ricondurli al livello spirituale anteriore agli eventi che li hanno coinvolti. Quanto agli inermi, la loro trasformazione da vivi in cose li costringe a sprofondare in una vulnerabilità senza riparo, giacché ciascuno "è solo un poco di carne nuda, inerte e sanguinante sul ciglio di un fossato, senza nome, di cui nessuno sa nulla", scrive Weil, e a cui nessuno presta attenzione16Ma come si fa a prestare attenzione?
Su questa terra regna sovrana "una forza brutale, spietatamente diret­ta verso il basso quanto la forza di gravità", alla quale ogni cosa, ogni essere soggiace - afferma lucidamente Simone Weil, erede del pensiero dell'antica Grecia; si tratta di una verità che dovrebbe indurci a ripen­sare totalmente e radicalmente ogni tipo di potere, sottolinea Fulco, a che non solo è estraneo alla forza ma si regge altresì sul consenso. Data la consapevolezza della possibilità per ogni essere umano di precipitare nell'estrema sventura, Simone Weil "si colloca all'opposto di qualsiasi teoria che pensi la violenza - in quanto forza o in quanto potere - come possibile strumento da utilizzare in vista di determinati fini" o che ne proclami un uso moderato, perché in tal caso sarebbe richiesta "una virtù più che umana, tanto rara quanto una costante dignità nella debolezza". Opposta alla forza bruta vi è tuttavia un'altra forza, invisibile, che è strettamente connessa all'esistenza, al nostro venire al mondo in una condizione di vulnerabilità, che noi percepiamo - è sufficiente pen­sare ai mutamenti che apporta a livello corporeo la semplice presenza di qualcun altro nella stanza in cui ci troviamo - ma di cui non vogliamo avere consapevolezza, perché è una verità che ci fa paura e perché non siamo mai disponibili a quell'attimo di arresto, in cui s'insedia il pen­siero; si tratta di una verità che non solo ci permetterebbe di scorgere e assumere ciò che condividiamo in quanto viventi - l'esposizione alla sventura - ma perfino di limitare la nostra tendenza a sopraffare l'altro/a e talvolta anche di vedere il mucchietto di carne abbandonata e perce­pirne il muto lamento: "Perché mi viene fatto del male?".

Proposte concrete di riorganizzazione della società
Nella parte del volume, intitolata Per un'immanenza spirituale all'in­terno del secondo capitolo, si riflette l'intento dichiarato da parte dell'au­trice di salvaguardare Simone Weil dal "costante fraintendimento, teo­retico e politico, del suo pensiero". Fulco critica le proposte avanzate da Weil nei pochi mesi londinesi prima di essere ricoverata in ospedale, poiché vi intravede una radice platonica e aristocratica e esse le sembra­no dirette alla realizzazione di "uno Stato bioetico, affidato, innanzitutto, a una élite di intellettuali e di quadri dirigenziali che avrebbero dovuto sapientemente agire per il bene comune", e assumere il difficile compito di "trasporre la verità, tradurla, cosa ben diversa dal 'volgarizzarla' [...] trasmetterla nella sua integralità. con delle modalità che la rendano com­prensibile a tutti ... ". È imponante comunque non perdere mai di vista il contesto: la Resistenza francese in esilio a Londra aveva accettato di far rientrare in Europa Simone Weil non per darle la possibilità di rea­lizzare, come avrebbe desiderato, il suo progetto di infermiere di prima linea destinate a prestare soccorso ai feriti e moribondi, offrendo così al mondo un esempio di eroismo impersonale opposto a quello idolatrico dei nazisti, ma in quanto pensatrice da utilizzare per la sua intelligenza. Consideriamo inoltre la sua sofferenza nel trovarsi relegata in un piccola stanza obbediente all'ordine di leggere e rivedere le proposte avanzate dai diversi gruppi di resistenti, vale a dire un compito da intellettuale. Le manca, come sappiamo, il contatto con la realtà concreta, in questo caso il contatto con la sventura in un campo di battaglia, un contatto fondamentale per il suo procedere nel pensiero. In quella situazione che la tocca e la ferisce in ogni fibra del suo essere, si china a riflettere sul degrado della politica oramai ridotta a "mera tecnica del potere" e av­verte l'urgenza di ripensarne il carattere vocazionale e di valorizzarla in quanto composizione simultanea su piani diversi - lavoro creativo, affine a quello dell'arte e della scienza - per la cui traduzione pratica sarebbe stata necessario un grado elevato di attenzione, come del resto Fulco non manca di sottolineare; ma a Londra non le capitò di trovare uomini e donne "di potere" che le prestassero ascolto. In un'Europa che aveva tagliato le proprie radici con la sacralità del vivente, i cui risultati deva­stanti sono oggi ancor più evidenti, da dove attingere ispirazione se non da quelle tradizioni spirituali pagane e cristiane originarie in grado di far circolare un simbolico, un ordine del discorso, che desse respiro e co­raggio, che sorreggesse il mutamento di mentalità, che reperisse moventi elevati, quale ad esempio la rinuncia al potere da parte di chi lo esercita? Ma chi avrebbe mai potuto dare ascolto a una Simone Weil che, pur ammirando De Gaulle, suggeriva che egli avrebbe dovuto limitarsi a un esercizio simbolico del potere e addirittura, una volta finita la guerra, a rinunciarvi? Rita Fulco riconduce l'ambiguità di alcune proposte weilia­ne "al problematico passaggio - che già da qualche tempo coinvolgeva l'intera Europa - a tecniche di governo di tipo biopolitico", leggendole dunque con la lente di Foucault: assimila "l'intento di Weil a quello della direzione spirituale della pastorale cristiana" e i "modelli di comunità per la classe operaia e per i contadini" a modelli "biopolitici - nei quali è promosso e incoraggiato il ruolo dello Stato e dei corpi intermedi nella gestione capillare della vita dei singoli cittadini"21• Si tratta di critiche accettabili dal punto di vista logico-teoretico, ma, come del resto mostra Fulco, l'intento di Weil è, anzitutto, quello di ri-pensare la condizione operaia e la condizione contadina all'interno di una revisione dell'umano e delle relazioni umane e non solo in vista del futuro assetto postbellico, quindi di dare indicazioni orientative al governo francese in esilio sulla base dei documenti che le venivano sottoposti; in secondo luogo, proprio perché consapevole dei rischi insiti nella trappola della bestia sociale e delle sventure riservate a quanti si rifiutano di conformarsi alla menzogna, all'ingiustizia e alla bruttezza, propone una trasformazione della so­cietà che la renda "il meno cattiva possibile".
Infine, quelle proposte concrete sono inserite, come la stessa Fulco non si stanca di ricordarci, in un'opera, L'Enracinement, affine a una composizione simultanea su piani diversi rimasta incompiuta.

Umanità dell'umano
Una delle questioni più stimolanti e coinvolgenti appare nell'ultimo ca­pitolo del volume e "riguarda il nesso tra la naturalità della legge del più forte e l'umanità dell'umano: l'essere umano è destinato a sottostare alle leggi di natura? O un segno caratterizzante dell'umanità non è, piutto­ sto, quello di potervisi sottrarre?". Questione strettamente collegata ad alcuni passi delle prime pagine dell'Enracinement, che riporto così come citate nel volume di Fulco:

Un uomo, considerato di per se stesso, ha solo dei doveri, fra i quali si trovano certi doveri verso se stesso [...] Un uomo, che fosse solo nell'universo, non avrebbe nes­sun diritto, ma avrebbe degli obblighi... L'oggetto di obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l'essere umano in quanto tale. C'è [il y a] obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun'altra condizione ab­bia ad intervenire; e persino quando non gliene si ricoRita Fulco coglie nella nozione weliana di obbligo "un quid che concerne la stessa umanità dell'umano" e afferma che questa umanità dell'umano coincide con l'essere in obbligo dell'essere umano, giacché, anche se fosse solo nell'universo, chiarisce Weil, l'essere umano avrebbe non dei diritti ma degli obblighi (anche nei confronti di se stesso). Ne deriva che, se ci si sottrae all'essere obbligati (in senso passivo e in senso attivo), si rinuncia alla nostra stessa umanità.

Il riconoscimento dei bisogni materiali e spirituali di ogni essere uma­no, equivalente al "riconoscimento della dignità della finitezza umana", rimarca Fulco, comporta una risposta da parte di ogni essere umano in quanto tale; il riconoscimento che tutti gli esseri umani hanno bisogno per esempio di nutrimento o di calore comporta che quel bisogno è uni­versale. Ma come mai, si chiede l'autrice, la consapevolezza dell'univer­salità dell'obbligo che scaturisce dall'essere-in-obbligo non diventa habitus comune e quasi tutti propendono per perseverare in un modo di essere che ricalca le leggi della materia e della natura e, pur di preservare indefinitamente se stessi, sono pronti a schiacciare l'altro/ a più debole, a sottostare alla legge del più forte? Per rispondere, vengono evocati due esempi di Simone Weil, uno presente in uno scritto del 1926 (Le Beau et le Bien) e l'altro all'interno di un lungo saggio risalente probabilmente al 1942 (Formes de l'amour implicite de Dieu). Il primo riguarda Alessandro Magno: mentre attraversava il deserto con i suoi soldati, gli viene offerta da bere la quantità d'acqua rimasta che è sufficiente a dissetare solo lui, ma un attimo di arresto, di silenzio, di immobilità gli consente di pensare, di fare attenzione e di decidere di non bere, sfuggendo così alla legge di natura. L'altro riguarda una circostanza nella quale ci sarà capitato di imbatterci tante volte, quella narrata nella parabola del buon samaritano: nessuno si accorge di un essere ridotto a cosa inerte a causa dell'estrema sventura, lo si scorge forse per pochi minuti ma lo si dimentica imme­diatamente, uno solo si ferma-lo guarda-lo vede-gli presta attenzione­-lo soccorre. La decisione di Alessandro Magno esemplifica - commenta Rita Fulco - il processo di de-centramento dell'Io; l'attimo di arresto del samaritano è da lei letto sulla scia di Weil come una diminuzione di sé, un dispendio di energia non per accrescere il proprio potere, ma per dare esistenza a un altro essere, grazie a un'attenzione creatrice; si tratta di un'operazione che va contro le leggi della natura, si tratta di autentica generosità, che l'autrice colloca "nell'orizzonte dell'essere obbligati come qualità propria dell'essere umano". Un'ampia e accurata disanima della critica weiliana al diritto e ai diritti in chiusura del volume mette in luce fra l'altro che due lacune rilevate dalla filosofa francese sono state col­mate nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948: "in essa si proclama un diritto universale [...] e non si parla di persona umana, ma si usa semplicemente il termine 'uomo', l'essere umano in quanto tale nella sua concretezza", così come delineato in uno scritto mirabile di Simone Weil a giusto proposito citato: "In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell'uomo [. .. ] Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tut­to ... "26. Per di più prosegue Fulco:

Lo scarto che, nei diritti umani, si apre tra diritto e giustizia, consente, da una parte, di smascherare il carattere in ultima istanza violento di ogni diritto, che si fonda sulla forza, e, dall'altra, mediante un capovolgimento di prospettiva, di dare 'veste' giuridica alla debolezza, di essere un baluardo per la vulnerabili"tà stessa dell'essere umano, quella vulnerabilità che non aveva trovato protezione né espressione, se non parziale e condizionata, nel linguaggio del diritto civile e penale statale. E chiude la sua lettura di Simone Weil auspicando che venga abbando­nato "un diritto inteso individualisticamente" e che si ponga in primo piano e al centro in filosofia così come in politica "l'obbligo di esercitare la giustizia nei confronti dell'altro, ancor prima della sua stessa richiesta rivendicazione di un qualsiasi diritto". Una speranza che le continue e ossessive ferite all'umanità dell'umano - scandagliate da Rita Fulco con animo risoluto nel suo volume - non possono che continuare a alimenta­re ogni giorno, in ogni circostanza, avanzando nell'esercizio dell'attenzio­ne - definita da Weil in uno scritto sul buon uso degli studi scolastici in modo nitido: "distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si inspira e si espira". Solo questa facoltà di attenzione permette di non aggrap­parsi alla menzogna riguardo alla verità della condizione umana, quindi di "rinunciare al potere di dire io" e di distaccarsi dai frutti dell'azione (secondo le due direttrici relative rispettivamente al piano naturale e a quello soprannaturale); essa permette quindi di acquisire la consape­volezza che "lo sventurato esiste non come elemento di un insieme, non come esemplare della categoria sociale che porta l'etichetta di 'sventu­rati', ma in quanto uomo, esattamente tale e quale noi, un uomo che un giorno è stato colpito dalla sventura con il suo marchio inimitabile", come potrebbe capitare a ciascuno/a di noi; una consapevolezza che induce dunque ad arrestarsi e prestargli soccorso. Il volume della filosofa Rita Fulco, Soggettività e potere. Ontologia della vulnerabz'lità in Simone Weil, ha il pregio di aprire ulteriori piste di analisi e di interpretazione dell'opera di una filosofa la cui coscienza dei mali e dell'oppressione nel­le/delle società europee rimane ancor oggi una pietra miliare nella storia del pensiero e il cui sguardo sull'umanità dell'umano può orientarci alla salvaguardia della singolarità nostra e altrui, ali' assolvimento dell'obbli­go di soddisfare i bisogni terrestri del corpo e dell'anima di ogni donna e di ogni uomo, in definitiva a un'altra politica.