Il volume Teologie e politica. Genealogie e attualità
(Quodlibet, 2019, pp. 1-382 – collana Materiali IT),
curato da Elettra Stimilli, torna sul tema della teologia
politica, già al centro della discussione filosofica di
questi anni, riunendo una serie di contributi di studiosi
italiani, francesi, tedeschi e inglesi. L’intento principale
dell’opera è riprendere il problema a partire da tre
coordinate, che per brevità sintetizzerei così.
In primo luogo, l’ampio e articolato dibattito sorto in
Germania tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, a partire dal confronto tra
Peterson e Schmitt e proseguito almeno sino alla doppia definizione di teologia
politica, «descrittiva» e «normativa», introdotta da Böckenförde e ripresa poi da
Assmann. Essa infatti ispirerà quel vasto cantiere “metapolitico” rappresentato, pur
con differenze rilevanti, dai due maggiori dizionari dei concetti elaborati in
Germania, da un lato l’Historisches Wörterbuch der Philosophie (1971-2007), diretto
da Joachim Ritter, dall’altro i Geschichtliche Grundbegriffe (1972-1997), diretti da
Koselleck, Brunner e Conze.
Altro nucleo del volume è la ripresa del tema “teologia politica” nel panorama
filosofico e gius-politico italiano contemporaneo. A questo proposito la curatrice,
nell’ampio saggio introduttivo, individua due fasi piuttosto marcate, la prima sorta
tra gli anni Settanta e Ottanta a partire dalla rivalutazione del pensiero di Carl
Schmitt; e la seconda, attualmente aperta, orientata a sviluppare i legami con la
prospettiva biopolitica (p. 13). Infatti, al di là delle partizioni possibili, non c’è dubbio
che tra Germania e Italia la riflessione filosofica novecentesca sulla teologia politica
abbia avuto alcuni tra gli snodi più significativi, e talvolta opposti. Tra questi ultimi
c’è il diverso “uso” di un autore come Schmitt, del suo concetto di sovranità, della
teoria del katechon e ancora della Teologia politica II. Snodo tuttavia ancora più
rilevante è la stessa collocazione della teologia politica: nel dibattito tedesco, in
buona parte, come questione propria di un ambito specifico tra filosofia e teoria
della religione, mentre in Italia secondo un’ottica che ha inteso mettere in
discussione innanzitutto lo statuto della filosofia. Non si tratta però solo di
fotografare aree di influenza. Merito di questo volume collettaneo non è infatti
tanto ricostruire questo variegato panorama concettuale, ma fare apprezzare al
lettore le sue ragioni interne, sia mostrandone esempi concreti all’opera (come nei
saggi di Di Cesare e Vitiello) sia approfondendo alcune figure, da Weber a Taubes,
da Landauer a Weil, che in modi diversi possono rappresentare il «punto di
rotazione» (Jouin) e di attrazione tra filosofia tedesca e italiana.
La terza e ultima matrice di quest’opera a più voci ruota intorno alla
discussione sul compimento della stessa “epoca” teologico-politica. Prevalente qui è
la convinzione che oggi sia non solo possibile, ma necessario soprattutto evidenziare
i limiti storici e concettuali di una costruzione, quella appunto teologico-politica, che
se anche ha inteso farsi interprete quasi univoca della relazione moderna tra politica
e religione, tra autorità e verità, non manca però di esibire elementi critici, punti di
rottura e discontinuità.
Date brevemente le coordinate del volume, merita tornare sull’immagine con
cui Carlo Galli, nel saggio d’apertura, paragona ad una sorta di vichiana ingens sylva
il grumo di temi e concetti politico-istituzionali che in epoca moderna hanno
alimentato il rapporto tra politica e religione (p. 32). Metafisica e mediazione,
auctoritas e rappresentazione, ordine e unità, fini e fine della storia, l’intreccio tra
paura, libertà e giustizia; sono questi i principali nodi su cui la teologia politica ha
esercitato le sue prassi logiche, argomentative, simboliche e iconografiche. Soltanto
che, come ogni ingens sylva che si rispetti è priva di un “chiaro ed evidente”
principio d’ordine e di un’origine circoscritta una volta per tutte nella sua
prestazione fondativa, così anche la politica moderna non è il campo unilaterale
dominato dalla ragione sovrana, né può ridursi facilmente ad una secolarizzazione
inarrestabile. Questo è lo spazio in cui si inserisce la teologia politica: costruzione
problematica, almeno per la riflessione filosofica che ad essa si dedica (Hegel
compreso, come mostra acutamente Stefania Achella), perché della ragione politica
sorta nella modernità svela, per un verso, il debito verso il teologico e per l’altro il
fatto che il superamento secolarizzante dell’elemento religioso resti un processo in
atto e operante, eppure mai del tutto lineare e risolto. Duale insomma è la sua
nozione (secondo la definizione data in particolare da Roberto Esposito) e in questo
senso critica, almeno nella misura in cui la teologia politica risulta capace di
decostruire la più classica auto-interpretazione della modernità come chiusura della
ragione su sé stessa.
Su questo terreno il paragone con la biopolitica viene quasi naturale; e
naturale è anche evidenziare i diversi presupposti di due discorsi non assimilabili, ma
entrambi diffidenti rispetto all’immagine della politica costruita sul modello del
cittadino soggetto autonomo e sull’equilibrio ragionato tra utile individuale e utile
comunitario. Perciò, non solo è proficuo e opportuno, nell’ultima sezione del
volume, l’ampio spazio dedicato al confronto con Michel Foucault, ma merita una
sottolineatura anche la proposta di affrontare il plesso teologico-politico (la sua
permanenza, consunzione o trasformazione) a partire dall’analisi di specifici istituti
giuridici. È il caso della pena di morte, protagonista di un noto seminario di Derrida e
al centro del saggio di Jean-Claude Monod, ma anche dell’ampio processo di
giudizializzazione della sfera politica caratteristico, secondo la nota analisi di Ran
Hirschl, degli ultimi decenni e che qui Mariano Croce propone di considerare come
paradigma di regolazione autonomo, né interno alla governamentalità liberale né
tantomeno semplice elemento dissipatore della politica democratica.