Recensioni / Grave e leggero. Una lettura politica dell'Orlando furioso

Con il suo ultimo lavoro, L’Orlando furioso, l’Italia (e i turchi) (Quodlibet, pagine 94, euro 10), Matteo Di Gesù, docente di Letteratura italiana all’Università di Palermo e acuto critico e saggista, propone, o ripropone con maggiore determinazione, una lettura del capolavoro ariostesco come “poema della crisi del Rinascimento”. Poema, cioè, di civili e politiche inquietudini in cui si agita lo spettro della débâcle italiana.
Ovviamente non si tratta di una prospettiva del tutto inedita né tale da suscitare stupore o scandalo. Ne è d’altronde consapevole lo stesso Di Gesù, il quale avverte il lettore che ormai da tempo la critica “ha messo in discussione la proverbiale armonia ariostesca”.
Va da sé, d’altronde, che ogni grande opera contenga al suo interno una sterminata congerie di elementi diversi, o perfino contraddittori, sui quali l’occhio del lettore, specie se critico, talora sorvola e talaltra si sofferma sulla base di criteri soggettivi o sociali, di sensibilità personale o di contesto storico-culturale. Ogni capolavoro è pertanto sempre problematico e aperto a chiavi di lettura eterogenee, che nel corso del tempo si contrastano o si integrano, ribadendo con ciò la vitalità dell’opera e la sua perenne attualità.
Di solito, almeno da Foscolo in poi, della poesia e della tecnica romanzesca dell’Ariosto si è inteso cogliere soprattutto l’inesauribile e inimitabile originalità, pur basata su fonti classiche e romanze, nonché i pregi di uno stile nel contempo raffinato e naturale.
Una grazia, insomma, un’amabilità, una leggerezza, un che di radioso in cui si esprime, nei modi soprattutto di una seducente ironia, una conoscenza profonda della natura umana.
Così, per esempio, ne parlava Benedetto Croce in un bel saggio del 1917:

“La fortuna dell’Orlando furioso si può comparare a quella di una donna leggiadra e sorridente che tutti guardano con letizia, senza che l’ammirazione sia impacciata da alcuna perplessità d’intelletto, bastando, per ammirare, aver occhi e volgerli al grato oggetto. Limpidissimo com’è quel poema, nitidissimo in ogni particolare, facilmente apprensibile da chiunque possieda una generale cultura, non ha mai presentato seri ostacoli d’interpretazione, e perciò non ha avuto bisogno delle industrie dei comentatori e non è stato aduggiato dalle loro litiganti sottigliezze” (1)

Un’opera, quindi, senza tenebre né asperità, pervasa da un’intrinseca armonia, il cui fascino è oggetto d’una concordia pressoché unanime.
Croce si limitava a citare, tra i tanti illustri estimatori dell’Orlando furioso, solo pochi nomi: Machiavelli, Galilei, Voltaire, Goethe. In tempi più recenti il mito e la fortuna dell’Orlando furioso si devono soprattutto alla devozione di Jorge Luis Borges e Italo Calvino.
Borges ha in diverse occasioni dichiarato (per esempio in un’intervista rilasciata a Sciascia, altro appassionato cultore ariostesco) di non conoscere bene la letteratura italiana, ma di amare con grande trasporto Dante e Ariosto, dei quali ha più volte letto e riletto la Divina Commedia e l’Orlando furioso. Su Dante ha lasciato un gruppetto di nove saggi che poi sono stati raccolti in volume (Nueve ensayos dantescos). Su Ariosto, invece, non ci lasciato niente di così compatto. Nella raccolta L’Artefice (El Hacedor, 1960) compare tuttavia una splendida poesia, “Ariosto e gli arabi” (Ariosto y los àrabes), che può essere considerata una summa delle ragioni della predilezione dello scrittore argentino per il capolavoro ariostesco.
Si tratta di una specie di rapsodia sognante che trascorre dal ciclo carolingio a quello bretone, dalle Mille e una notte ai Nibelunghi, come a ribadire l’incipit della composizione: “Nessuno può scrivere un libro”.
Per scriverlo, infatti, affinché “esista davvero”, occorre il concorso plurale di popoli e culture che il mare separa e tuttavia unisce, di secoli di storia e di civiltà. Nella poesia di Borges, Ariosto, a cui questi pensieri vengono attribuiti, appare intento al “piacere lento”, all’ozio ri-creativo e re-inventivo “di tornare a sognare il già sognato”: il corno di Roncisvalle, la spada di Artù, le Valchirie, l’ippogrifo greco o persiano, il castello incantato d’Atlante, in cui tutto “è (come in questa vita) falsità”.
Vi è dunque simmetria tra il sogno e la realtà. La “sorte strana” di Ariosto, come di tutti i poeti, fu quella di appartenere, almeno per metà, alla dimensione del sogno: “andava per le strade di Ferrara / e al tempo stesso andava per la luna”.
Figura fantastica e aerea, insomma, l’Ariosto arabico vagheggiato da Borges, onirica e leggera come la materia del suo luminoso poema.
Non di meno, Borges la colloca con precisione nel suo contesto storico e geografico, quasi a volerne suggerire le coordinate culturali e temporali e a indicarne una possibile chiave interpretativa più concreta e drammatica:

L’aria della sua Italia era abitata dai sogni che, in figura della guerra che in duri secoli afflisse la terra, insieme ordirono memoria e oblio (2).

Accanto al sogno, così naturale all’atmosfera italiana, troviamo quindi appaiati i corruschi furori della guerra e la laboriosa vita della terra, ovvero i travagli della storia e quelli sempre infidi della memoria.
Su questo versante interpretativo si muove agilmente Matteo Di Gesù in questo suo breve, ma intenso e interessante, saggio, “smentendo quelle interpretazioni, talvolta corrive, dell’Orlando furioso quale grande poema della leggerezza, opera archetipica di un fantastico che sfuggirebbe qualsivoglia implicazione profonda con la storia, con il proprio tempo e con la società di cui l’autore faceva parte”.
Un Ariosto, quindi, che non solo risulta, a conti fatti, più realistico di quanto generalmente si supponga, ma che non pare azzardato considerare anche uno scrittore politico.
E, a ben guardare, perfino uno scrittore attento a una dimensione nazionale, la cui prospettiva, dal pretesto encomiastico e particolare, si va progressivamente, canto dopo canto, allargando: “Il poema della leggerezza si va trasformando, pur senza stravolgersi, nel poema della ‘fine degli incanti’, nel romanzo della ‘grande catastrofe italiana’ ”.
L’Orlando furioso ribalta e sovverte gli schemi consueti della narrazione fantastica, “facendone materia di una testimonianza storica, quella del quarantennio delle guerre d’Italia”, con un preciso senso della realtà, ispirato alla lirica civile del Cinquecento, in cui e con cui si dissolvono gli ideali cavallereschi e perfino s’incrina il mito della paganìa cortese, lasciando intravedere “manifestazioni di ostilità verso lo stato e la civiltà ottomana”.
E qui entriamo in un punto cruciale dell’argomentazione sovversiva di Matteo Di Gesù, giacché nel poema ariostesco “la rappresentazione del musulmano, quand’anche complessa e articolata, non è affatto pretestuosa” e identificabile con “un mero espediente narrativo avulso dal contesto storico e dalla realtà politica del proprio tempo”.
È un contrasto non secondario né marginale:

“Ma se, per una volta, non si può convenire con Italo Calvino, quando scrive che i Saraceni nel Furioso ‘sono un’entità fantastica per la quale non vale alcun riferimento storico o geografico’, sarebbe comunque fuorviante leggere questo canto e gli altri passi ariosteschi esaminati come la mera codificazione letteraria di un conflitto tra civiltà in atto, di uno scontro tra cristiani e musulmani, tra europei e Ottomani”.

In realtà, l’inciso cortese “per una volta” cela e smorza un dissenso più profondo (che in nota si rimanda a uno scritto polemico – “Con Ariosto, senza Calvino” - di Stefano Jossa).
Il senso generale del saggio di Matteo Di Gesù, al di là di occasionali divergenze o convergenze, è indubbiamente una controlettura anti-calviniana dell’Orlando furioso.
Si tratta di una controlettura carsica che “ci dovrebbe consentire di ritenere il tema dell’incontro/scontro con la potenza ottomana e la sua cultura e della guerra d’Oriente, una volta di più, ben altro che una occasionale e anodina attualizzazione della materia carolingia”.
Il poema della leggerezza levitante si converte così in un’opera controversa e conflittuale che s’ingrotta e percorre lunghi tratti sotterranei prima di tornare a una splendente superficie.
Che sembra però più un’obiezione anticrociana che prettamente anticalviniana. Calvino, attentissimo lettore, ancorché portato come tutti i grandi scrittori a forzare il senso esegetico, aveva ben scorto già nel 1974 “le digressioni sull’attualità italiana che abbondano soprattutto nell’ultima parte del poema” e si era interrogato sul modo in cui “attraverso queste connessure il tempo in cui l’autore vive e scrive facesse irruzione nel tempo favoloso della narrazione”, interpretando questo andamento errante come un “segno d’una concezione del tempo e dello spazio che rinnega la chiusa configurazione del cosmo tolemaico, e s’apre illimitata verso il passato e il futuro, così come verso una incalcolabile pluralità di mondi” (3).