Attraverso una raccolta di ventotto testi, scritti tra il 1957 e il 1999, il volume – Il falso è l’autentico. Politica, paesaggio, design, architettura, pianificazione, pedagogia, a cura di Gaetano Licata e Martin Schmitz (Quodlibet, 2019) – introduce al pubblico italiano la figura di Lucius Burckhardt, eclettico pensatore e studioso basilese capace di combinare virtuosamente «ricerca scientifica e intervento artistico [creando] relazioni inattese tra diverse discipline» (p. 236). La sapiente selezione dei testi – nei quali si intrecciano politica, paesaggio, design, architettura, pianificazione e pedagogia – articola una narrazione che, lungo un arco temporale di oltre quarant’anni, affronta con libertà e piglio audace molti di quei temi urbani e territoriali che mostrano una sempreverde attualità. L’elaborazione teorica di Burckhardt spazia, infatti, dall’arte di costruire la città – ovvero, la «manifestazione più pubblica della nostra vita, la rappresentazione più visibile dell’attività umana» (p. 21) – all’interpretazione del fenomeno della metropoli – definita come «una mescolanza geografica di frammenti di città e di campagna che si susseguono senza soluzione di continuità [e] una compenetrazione inestricabile di funzioni urbane e rurali» (pp. 184-185) – fino alla riflessione sulla bellezza del paesaggio come «atto creativo» (p. 93) dell’osservatore.
Molti dei testi di Burckhardt appaiono animati da una seducente abilità di illuminare quel nesso tra mondo fisico e dinamiche immateriali – efficacemente esemplificato dall’immagine della fermata del tram come «sistema integrato di design, leggi e regolamenti» (p. 102) – che dà forma al quotidiano urbano che tutti noi sperimentiamo. Le sue parole ci sollecitano, dunque, a una maggiore consapevolezza di quanto il nostro spazio abitato prenda forma attraverso l’integrazione di due dimensioni progettuali ugualmente potenti, ovvero «sistemi che in parte sono visibili, ma in parte contengono sistemi di relazioni, di regole o ritmi temporali che rimangono in parte invisibili» (p. 105).
Una medesima sensibilità critica traspare anche nelle pagine dedicate alla città, per esempio laddove Burckhardt rileva la complessità del limite tra la dimensione intenzionale e quella accidentale nella costruzione della forma urbana: «ogni casa della città è stata voluta, voluta da qualcuno esattamente com’è; solo l’esito complessivo […] non è frutto di una volontà. Eppure la città è stata costruita da esseri umani, è l’espressione di un agire consapevole» (p. 22). Oppure quando sottolinea la labilità del confine tra realtà e interpretazione nella leggibilità della città: «la forma della città in sé non esiste: è un costrutto interpretativo della percezione, ed è frutto di apprendimento. Per l’occhio educato alla storia dell’arte, il visibile si compone a creare una forma; per il cittadino medio sono i rapporti sociali a costituire l’ambiente» (p. 85).
Alla definizione della “categoria” del paesaggio sono invece dedicati vari scritti che, con taglio argomentativo e sovente provocatorio, ci invitano a coltivare uno sguardo lucido e interrogativo sulla realtà che ci circonda. Burckhardt, infatti, ci mette in guardia circa l’ingannevolezza della nostra stessa percezione e delle nostre stesse strutture culturali, poiché «c’è un “paesaggio non dipinto” nelle nostre teste, frutto dell’educazione e delle letture, che ci permette di percepire come paesaggio l’ambiente circostante e di impartirgli un significato» (p. 159). Occorre prendere coscienza – egli continua – che «da un lato ci costruiamo un’immagine unitaria influenzata da una miriade di impressioni; nel contempo ne escludiamo e vi includiamo elementi tipici e non tipici: miniere nella Ruhr, pecore nelle Highlands scozzesi. Questo ci porta a domandarci come reagiremmo trovandoci su un terreno sconosciuto, che non coincide con le immagini che abbiamo nella mente» (pp. 159-160).
Sulla formulazione di una nuova teoria della percezione del paesaggio si concentrano allora gli scritti dedicati alla promenadologia, una scienza fondata sulla pratica del camminare e, dunque, sull’incontro con il succedersi dei luoghi. Nelle parole di Burckhardt la promenadologia «si occupa delle sequenze per mezzo delle quali l’osservatore percepisce l’ambiente» (p. 197), con l’intento di sostituire a quell’immagine unica e perfetta del paesaggio, che ciascuno di noi deriva dal proprio bagaglio culturale ed educativo, una sua «percezione reale» (p. 201) capace di coglierne tutti i diversi frammenti. Inoltre, sottolinea Burckhardt, mentre un tempo «il contesto esplorato promenadologicamente spiegava sempre l’oggetto visitato» (p. 197), oggi siamo ormai in «una nuova posizione rispetto all’oggetto osservato, si tratti di un edificio o di un paesaggio» (p. 198). Essa può considerarsi l’esito tanto delle modalità attraverso cui l’oggetto viene raggiunto – pensiamo, per esempio, a quando ci troviamo di fronte a un edificio «all’improvviso [uscendo] dalla metropolitana» (p. 198) – quanto delle caratteristiche – pensiamo, per esempio, all’indefinitezza di quelle zone «in cui la città vorrebbe essere campagna [e] la campagna vorrebbe essere città» (p. 199) – assunte via via dallo spazio abitato. Al venir meno della logica della sequenza narrativa Burckhardt propone di sopperire con la messa in campo di un’intelligenza progettuale fondata su un’estetica promenadologica, in grado cioè di «trasmettere simultaneamente un duplice messaggio: l’informazione inerente al contesto e l’informazione inerente all’oggetto» (p. 200).
Il riconoscimento dell’urgenza di un «trattamento accurato dell’ambiente e della vita quotidiana di coloro che sono toccati dalla pianificazione» (p. 145) nutre, invece, la formulazione teorica dell’intervento minimo. Burckhardt vi dedica diversi scritti in cui forte risuona l’invito a superare l’assolutezza e l’irreversibilità della soluzione netta fornita abitualmente dalle discipline del progetto. Ogni intervento minimo, infatti, deve trovare il suo fondamento sia nella consapevolezza che la comprensione umana della realtà non può che partire da un’immagine semplificata della stessa – che, dunque, «non ci permette di prevedere le conseguenze e le conseguenze delle conseguenze dei nostri interventi» (p. 144) – sia nella capacità di rendersi «comprensibile anche per coloro che hanno una cultura strutturata diversamente» (p. 146) aprendosi così alla pluralità che connota, in modo peculiare, la società contemporanea.
Al fine di superare quella «negligenza dell’elemento temporale» (p. 40) individuata come una delle maggiori imperfezioni dei metodi di pianificazione urbana, Burckhardt suggerisce di contrapporre alla consolidata progettazione di soluzioni una nuova attivazione di strategie. Mentre una dimensione statica connota le prime, tese a offrire risposta a specifici problemi del presente prevedendo, al contempo, una versione univoca del futuro, le seconde mostrano un carattere dinamico che consente possibili cambiamenti di rotta, durante lo scorrere del tempo, qualora si renda necessario. Viene dunque auspicata una pianificazione democraticamente aperta al coinvolgimento delle generazioni future, fondata su quel poco che basta «perché si inneschino gli sviluppi desiderati e resti tuttavia qualche cosa da decidere, da pianificare anche per quelli che verranno» (p. 40). Le parole di Burckhardt rivelano così, ancora una volta, la sua speciale capacità di tessere una preziosa trama relazionale tra immagini del presente e visioni del futuro.