Recensioni / La religione del debito

Il saggio di Elettra Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, ripubblicato da poco, ha un obiettivo allo stesso tempo radicale e ambizioso: da che cosa deriva, da un punto di vista filosofico e culturale, il sentimento onnipresente, così tipico del nostro tempo, per il quale ci sentiamo in difetto e in colpa? Il nome che diamo a questo sentimento – debito – si riallaccia a concetti culturalmente stratificati (in tedesco, per esempio, la parola Schuld indica insieme sia la colpa sia il debito, in una confusione che è comune a diverse lingue). Il debito è stato in verità anche uno strumento di governo della vita dei singoli e della costruzione di rapporti geopolitici (sappiamo bene, ormai, come quello «sovrano» e quello «privato» siano intrecciati). Soprattutto, esso si rivela uno strumento che induce a sottrarre agli uomini il controllo del loro destino. L’analisi di Stimilli riesce a individuare in questo elemento un punto cruciale che permette di comprendere le concrete modalità con le quali il capitalismo ha innestato la sua totale presa sul mondo, e sugli esseri umani: porre l’accento sulla condotta di vita individuale, che è considerata di per sé, quasi naturalmente, mancante e in difetto, permette di articolare una forma di fede nel capitalismo, che lo rende, sotto molti aspetti, indiscutibile. Consumare non è più uno obiettivo godibile. Quel deficit originario comporta soprattutto che la nostra vita sia vissuta naturalmente come una rinuncia. Rinuncia che caratterizza la nostra compartecipazione al consumo e all’ordine neoliberale, mascherando sotto l’aspetto dell’imprenditore di sé stesso un’autodisciplina feroce, priva di scopi, che permette al capitalismo di metterci a valore come esseri viventi, come, infine, «capitale umano».

Questo dialogo a tre con Elettra parte da questa sua forte proposta di analisi. Partiamo dai contesti socio-economici che la puntellano. Il debito del vivente è stato pubblicato in prima edizione nel 2011. Si era nel pieno della crisi iniziata nel 2007 negli Stati uniti con l’indebitamento privato indotto dall’immissione massiccia sul mercato finanziario dei cosiddetti mutui subprime. La crisi passa poi in Europa nella forma della crisi del debito sovrano dei cosiddetti Stati Piigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) e ha il suo apice, nell’estate 2015, nella drammatica negoziazione del debito pubblico della Grecia con l’Unione europea. Allora, fin nei discorsi istituzionali che invocavano l’austerity quale norma di condotta, il nesso tra debito e colpa, tra crisi economica e responsabilità morale, era evidente. Per far fronte alla pandemia e alla crisi economica che ne sta derivando, l’Unione europea è chiamata fortemente in causa. Nelle politiche europee che si stanno configurando sembra esserci ancora all’opera la logica del debito.
Elettra: Dopo l’iniziale e per certi versi inedito ruolo assunto dall’indebitamento privato nella crisi scoppiata nel 2007, negli Stati uniti, il debito è stato esplicitamente connesso nel dibattito pubblico alla colpa originata dall’infrazione di impegni presi, soprattutto dal momento in cui l’Unione europea si è trovata direttamente coinvolta nel dissesto economico mondiale. La questione del debito è allora emersa nelle democrazie occidentali come un problema specifico di alcune nazioni europee, in particolare la Grecia, e si è cominciato a parlare di «debiti sovrani», un’espressione estremamente ambigua, sintomo della complessità della situazione che stiamo vivendo. Sempre più il debito è risultato non tanto o non solo una condizione che è possibile emendare ripagando il denaro dovuto – come l’ingiunzione autoritaria dei sacrifici imposti dalle politiche dell’austerity ha indicato nella fase delicata della crisi greca. È in questione qualcosa di più complesso, che si traduce nella richiesta di riforme, ma che mette essenzialmente in gioco la vita di ciascuno in forme inedite. Si tratta di capire, allora, in che senso l’emergere del debito non solo come questione economica, ma soprattutto come problema politico, porti alla luce un nuovo rapporto tra pubblico e privato che investe i singoli e le stesse istituzioni. Da questo punto di vista la colpa, che è stata evocata dalle politiche di austerità in relazione ai debiti non pagati, è risultata non solo l’espressione di vincoli non rispettati. Con essa piuttosto è stata in altro modo chiamata in causa quella specifica condizione che si produce nel momento in cui, con le politiche neoliberiste, i modi di dar valore alla vita pienamente corrispondono alla valorizzazione del capitale. Secondo questa logica, come si è detto, ciascun individuo è in grado di diventare un «capitale umano» e quindi di essere – o non essere – all’altezza dell’investimento atteso, trovandosi nel secondo caso in colpa per non aver saputo investire e massimizzare in maniera adeguata il proprio capitale.
In questo senso si può dire che le politiche di austerità a cui abbiamo assistito dopo la crisi greca sono state del tutto coerenti con quelle che hanno predominato negli ultimi decenni in Europa, anche in molti ambiti non direttamente economici come la scuola, l’Università e la sanità, che non a caso sono stati governati attraverso crudeli riti basati sull’amministrazione di crediti e debiti. In questi contesti emerge forse più chiaramente il fatto che in gioco non sono solo somme di denaro. Il debito implica uno stato sfuggente per definizione, una condizione di potere a cui è molto difficile sottrarsi. Si tratta infatti di qualcosa che non si può gestire con una semplice «cambiale», né con le tanto agognate «riforme strutturali». Il debito è un fatto politico e sociale prima ancora che economico ed esprime subdole modalità di sottomissione, connesse a una radicale disistima verso sé e verso gli altri e a una costante forma di concorrenza. E se la vita è condizionata dalla minaccia permanente dell’impoverimento, comunque vadano le cose, tutto appare già impossibile in partenza. Si spiegano così le forme depressive del disagio contemporaneo direttamente legate a strutture politiche formalmente liberali, ma repressive nella sostanza, proprio perché toccano i gangli più profondi della vita di ciascuno. Si può dire che nelle democrazie occidentali, dominate dalle politiche neoliberiste, il potere reprime affermando la libertà. Di qui la necessità, emersa negli ultimi anni con le nuove istanze sovraniste, di trovare dispositivi securitari che fomentino la paura per dominarla. Il punto è che le politiche neoliberiste non sono finite con i leader sovranisti, ma hanno solo assunto una veste differente, nella necessità di reagire alla forma apparentemente più libertaria della globalizzazione.
La pandemia ha portato alla luce la gravità della situazione smascherando soprattutto il disastro strutturale delle politiche sulla sanità, che hanno seguito i dettami delle regole neoliberiste. Nonostante tutti i tentativi di far fronte alle difficoltà economiche e sociali attraverso diverse forme di aiuti economici, pure molto rilevanti, l’Unione europea sembra che continui a non trovare la strada per un ripensamento radicale del suo ruolo politico. Invece di elaborare un ampio e articolato progetto politico di redistribuzione, che preveda la revisione dei Trattati e un ripensamento delle sovranità statali in vista di una politica europea trasnazionale, sembra che i leader progressisti dell’Unione siano piuttosto interessati a difendere gli interessi nazionali, lasciando in pasto ai sovranisti e agli slogan populisti qualsiasi proposta che vada in questa direzione (indicativa ad esempio è stata la reazione nei confronti dell’estemporanea proposta del presidente del Parlamento europeo David Sassoli di annullare il debito degli Stati membri dell’Unione europea verso la Bce). In definitiva, l’intento sembra quello di rimanere fedeli alle logiche sinora dominanti, all’interno delle quali sembra collocarsi anche il Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, viste le condizionalità previste, gli esiti disastrosi avuti sulla Grecia e il fatto che è fondamentalmente legato alle logiche intergovernative dell’eurogruppo, più che alla reale istituzione di uno strumento comunitario.

Lo spunto iniziale e il filo rosso che attraversa Il debito del vivente riguardano una ripresa di L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Vorremmo chiederti, innanzitutto, di chiarire qual è l’importanza della riflessione di Weber, e come essa si intrecci con la percezione che abbiamo del rapporto tra capitalismo e cristianesimo.
E: Nella percezione comune capitalismo e cristianesimo vengono solitamente intesi come ambiti totalmente opposti, l’uno volto all’accumulazione del denaro e al guadagno, l’altro orientato alla trasmissione di una modalità caritativa dell’esistenza. Anche molti studi storici hanno contribuito al rafforzamento di quest’impostazione, basti pensare a quelli più noti del medievista Jacques Le Goff, il quale, studiando l’usura, è arrivato contrapporre con forza l’etica del mercante e quella della chiesa. In questo contesto il lavoro di Weber rappresenta un’anomalia. La peculiarità della sua posizione è data dal fatto che nella sua tesi sull’origine del capitalismo l’etica cristiana, in particolare nella sua versione calvinista, costituisce uno stimolo essenziale per l’attività capitalistica. Ma il capitalismo, per Weber, non è tanto o soltanto una struttura economica condizionata in termini religiosi, come spesso è stato invece interpretato. Il punto fondamentale, oggi di grande attualità, consiste nel fatto che, nella sua prospettiva, la «contabilità» dell’esistenza implicita nella pratica ascetica cristiana – una pratica nella quale, in forza dell’obiettivo di raggiungere la perfezione, si fa un controllo metodico della propria condotta e quindi la vita assume il carattere di un’impresa, il cui successo, secondo la versione calvinista, è segno di elezione – è lo stesso meccanismo alla base dell’impresa capitalistica. Da questo punto di vista si può dire che l’oggetto principale dell’analisi weberiana è la figura dell’imprenditore-asceta, che in molti sensi ha anticipato quella dell’«imprenditore di sé», attraverso cui negli ultimi decenni forme di prestazioni gratuite sono entrate a pieno titolo nel processo capitalistico di valorizzazione.

La tua dunque è un’interpretazione che individua il fulcro del testo di Weber non tanto e non esclusivamente nella secolarizzazione di categorie e concetti cristiani all’interno dell’ordine del discorso capitalista; è piuttosto la pratica dell’«ascesi intramondana» a rappresentare l’anima più propriamente cristiana del capitalismo. In altri termini, il capitalismo mette a valore e a profitto la stessa capacità dell’agire umano di dar forma alla propria vita senza uno scopo determinato, senza che tale esercizio sia finalizzato. Il capitalismo ha catturato questa potenzialità dell’umano rendendola una forma di permanente auto-disciplinamento – ed è dal governo delle condotte di vita, oltre che dalle merci, quale esito della produzione che il capitalismo rinnova costantemente la sua presa sul mondo. Nel frammento Capitalismo come religione, Walter Benjamin ha radicalizzato la tesi weberiana: il capitalismo è una «religione puramente cultuale», cioè non ha un contenuto teologico o dogmatico – che eventualmente si può anche rifiutare – ma consiste in una mera osservanza di norme di condotta richieste per la partecipazione al culto capitalistico. Ciò che rende tali norme vincolanti è la colpa originaria con cui la religione cristiana ha contrassegnato la vita umana e che il capitalismo ha configurato in un indebitamento permanente e senza possibilità di estinzione. Mark Fisher ha affermato che è più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che la fine del capitalismo; stando al tuo libro, si potrebbe sostenere che sia più facile immaginare la fine dell’umano – oggi più che mai in epoca di pandemia e di crisi ecologica – che la fine del capitalismo. Eppure, proprio oggi pare necessario – come tu proponi in conclusione del libro – «riattivare» altre e differenti forme di convivenza.

E: Il Debito del vivente nasce da una riflessione intorno al rapporto tra le vite individuali e la gestione economica globale profondamente mutato con il predominio delle politiche neoliberiste. Il processo di sfruttamento alla base dell’economia capitalista è infatti coinciso con una forma di investimento di ciascuno sulla propria vita, una costante forma di accumulazione non più connessa soltanto a specifiche attività lavorative, ma associata alla stessa capacità degli esseri umani di dare forma e valore alla vita, come dicevi. Si è trattato di una trasformazione profonda, che ha persino messo in crisi la classica distinzione tra «lavoro» e «azione».
Al centro della mia analisi c’è la logica del «profitto per il profitto», che è anche uno degli aspetti più interessanti della tesi di Weber. Ciò che caratterizza questa logica non è una razionalità orientata allo scopo, come si sarebbe portati a pensare, ma un movimento che ha il suo fine in sé, qualcosa di profondamente analogo a ciò che caratterizza la stessa azione umana. Il punto è che l’impresa alla base della logica autoreferenziale del profitto è una dimensione astratta, separata dalla vita e pure a essa in qualche modo intimamente connessa. Si tratta di un legame profondamente simile a quello che emerge nell’esperienza religiosa. Come risulta dai più noti studi in questo campo, uno degli aspetti fondamentali dell’esperienza religiosa è il fatto di essere estranea a qualsiasi scopo utilitaristico, al punto che in essa l’autofinalità propria dell’azione umana si rivela come un potere con un fine in sé, separato da ciascun vivente e al tempo stesso capace di vincolare le sue azioni.
La mia ipotesi è, allora, che il capitalismo oggi sia diventato definitivamente la religione dell’autoreferenzialità che caratterizza in maniera essenziale la vita umana. In questo senso, la nozione di «ascesi» è fondamentale per comprendere il potere e lo «spirito» del capitalismo dei nostri giorni, non solo perché, in termini weberiani, questo è caratterizzato dalla rinuncia e dal rigore, ma perché è fondamentalmente la pratica che può essere «elettivamente» integrata nei modi di produzione capitalistici. Soprattutto oggi questa dinamica assume la forma di un’autodisciplina, che converte la qualità propriamente umana dell’azione senza un fine prestabilito in forme di vita che i singoli si trovano a imporre a sé stessi attraverso l’obbligo di essere sempre performativi, di investire anche attraverso il consumo sul proprio «capitale umano», di essere costantemente disponibili a vivere conformandosi a una valutazione imposta dal mercato divenuto l’istituzione dominante, alimentata da una competizione costante. Una condizione che si rivela in ciascuno come una mancanza, un difetto, uno stato di colpa, un debito del vivente, che prospera a partire dalla convinzione di non essere adeguati rispetto a ciò che è richiesto per essere produttivi. In questo senso si può dire che il capitalismo sia oggi definitivamente diventato una religione del debito, come è stato profeticamente affermato da Walter Benjamin.
Una condizione che è tanto più all’ordine del giorno con l’esplosione della pandemia, in cui alla conservazione della vita biologica viene opposto lo sviluppo economico come se fossero due aspetti in totale contrasto. Ma il Covid-19 non può essere affrontato come un fenomeno puramente biologico, privo di relazione con il contesto in cui si sviluppa. Questo virus non è altro che un sintomo della devastazione ecologica in atto, che è direttamente interconnessa alle nuove forme del capitalismo globale, e tende a ridurre le differenze e le complessità ambientali in grado di interrompere le catene di trasmissione di eventuali agenti patogeni, accelerandone così le mutazioni adattative e quindi selezionando varianti più forti e aggressive come quella del Covid-19. Quella che viviamo, dunque, non è solo una catastrofe naturale e la sopravvivenza biologica è direttamente connessa agli sviluppi della vita economica. Se una competizione individuale senza scampo ci ha sin d’ora impedito di comprenderlo, confinandoci in esistenze sole e indebitate, forse soltanto una cooperazione collettiva ci permetterà di inventarci nuove forme di convivenza in grado di riattivare la forza a disposizione di ciascuno. Un modo per prenderci cura in forma collettiva della vulnerabilità che è parte integrante delle nostre vite, trasformarla in potenza. Una trasformazione che per essere efficace non può essere solo strutturale, ma deve coinvolgere anche quegli elementi per così dire «sovrastrutturali» che sono parte integrante delle attuali politiche economiche.

Ci riallacciamo alla pandemia e al regime di lockdown generalizzato che ne consegue. Questa esperienza restrittiva ci dice a chiare lettere che lo smantellamento del sistema sanitario pubblico finisce per privarci della libertà, contrariamente a quel che propagandano i fautori liberisti sull’ampliamento della scelta e il miglioramento delle prestazioni favoriti dal sistema privato. Ma sul piano individuale il lockdown è anche un’occasione per interrogarsi su come coltivare la propria vita interiore: inevitabile ripensare al problema dell’ascesi. Nel 2010 questo sforzo ascetico sarebbe potuto consistere nella capacità di rinegoziare il debito che schiacciava le vite di uomini e donne. Non è andata così e, probabilmente, non lo andrà neppure in futuro. Ma nella condizione contemporanea questa tensione ascetica su cosa dovrebbe aver presa per non rischiare di volare ad alta quota senza mai atterrare sul concreto?

E: La domanda è molto importante e complessa è la risposta. Contrariamente a quanto prospettato dai cosiddetti negazionisti, per lo più preoccupati di difendere le libertà individuali, che verrebbero limitate da poteri eccezionali, le diverse forme di lockdown che hanno fatto seguito alla pandemia sono state soprattutto un effetto dello smantellamento del sistema sanitario pubblico, sintomo della privazione di una libertà comune – la libertà condivisa di cure adeguate. Si è trattato insomma della prova evidente che le riforme del welfare, che hanno trasformato i sistemi sanitari pubblici in servizi aziendali, funzionali alle richieste del mercato più che alla redistribuzione di un bene comune, hanno fallito in termini economici e sociali. Una forma di ascetismo depressivo è allora emersa con la pandemia attraverso la retorica moralistica della responsabilità personale e il disciplinamento dei comportamenti. Ma credo sia anche venuta alla luce una forma di ascetismo politico – se così si può dire – che consiste nella capacità di indicare nuovi stili di vita, nuove condotte, nuovi costumi, nuove regole del gioco sociale, che possono prodursi proprio a partire dalla condivisione della vulnerabilità, non come condizione naturale o esistenziale, ma come pratica politica. Una condivisione affatto irenica, ma che muove dalla consapevolezza che il conflitto è una dinamica interna alla vita, nella sua molteplicità e varietà, fino a toccare quegli ambiti che confinano con la sua determinazione biologica, senza mai identificarsi immediatamente con essa, mostrandone piuttosto il suo potere politico, come per primo ha dimostrato il pensiero femminista: penso alla generazione, al genere, al blackness, a tutti quegli ambiti legati alla riproduzione e alla cura, che anche durante il lockdown hanno saputo dare prova della loro costante pratica, attraverso linee carsiche costantemente attive e sempre più in grado di arrivare a trasformare anche le forme istituite del potere.

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