Recensioni / Giancarlo Gaeta, Il tempo della fine

fiancarlo Gaeta in questo recente volume chiama questo carattere imprescindibile della verità annunciata da Gesù «sequela», e, attraverso i 7 capitoli in cui si snoda viene via via definendo con lucidità il «rigore assoluto» (29) e quindi scandaloso della sequela richiesta dal maestro ai suoi discepoli, riproponendo anche a noi oggi il messaggio cristiano nelle sue radicali istanze che esige non solo l'ascolto della Parola ma anche l'impegno nella pratica.
Ed è proprio attorno al tema dello scandalo che Gaeta raccoglie alcuni episodi evangelici, mostrando quanto la condotta di Gesù sia stata scioccante per i contemporanei e come abbia prodotto un sentimento d'indignato rifiuto e di ripulsa, che a partire dalla sua cerchia familiare e dagli abitanti del suo villaggio, Nazaret, s'allarga via via sempre più mano a mano che procede nella sua missione, fino a coinvolgere quelle autorità religiose e politiche, che, sentendosi ora minacciate dal suo prestigio, ora messe in discussione dal suo insegnamento, ne decideranno la condanna a morte.
Nel 1° capitolo, dedicato al commento di un episodio narrato dai sinottici e nel modo più aderente a quanto probabilmente è accaduto da Marco (6,1-6), Gesù è dichiarato «folle», «fuori di sé» dai suoi stessi familiari, per i segni che opera grazie ai suoi poteri taumaturgici e di esorcista. Se il popolo lo cerca, i familiari sono invece preoccupati per il discredito e il sospetto che questo modo d'operare potrebbe attirare su di loro, mentre le autorità religiose sono intimorite soprattutto dall'uso che Gesù potrebbe fare del potere che esercita sulle folle.
Esaminando tali reazioni, nel presupposto esplicito che l'analisi di come la condotta di Gesù e la sua predicazione furono recepiti possa aiutarci a comprendere e a delineare i contorni della sua figura originaria, libera finalmente dal sistema di credenze che da sempre l'accompagna, Gaeta ammette che esse sono in certo modo comprensibili e che Gesù poteva legittimamente apparire tanto al suo clan familiare, quanto ai suoi concittadini e alle autorità religiose in preda a «forze oscure», considerando peraltro il sospetto che i giudei nutrivano nei confronti delle arti magiche.
Ma rileva altresì come da tali reazioni emerge un'importante traccia dell'autocoscienza carismatico-escatologica di Gesù, cioè la sua convinzione che questo mondo è dominato dal maligno e che, per liberarlo, non sia sufficiente, come voleva la tradizione, l'osservanza della Legge e dei profeti, ma sia necessaria la lotta mortale ingaggiata da lui stesso contro tale dominio, lo «scontro frontale tra due potenze, l'una delle quali risulterà superiore quando sarà in grado di "legare il forte"» (27).
Nel tempo della sua venuta, ma anche nell'ora presente, Gesù dunque interpella colui che lo incontra, nel momento in cui entra in relazione con lui, chiamandolo a delle scelte radicali, esigendo da lui un giudizio. Così chiede: «Ma voi chi dite che io sia?» (46) e in questo interrogativo «emerge in massimo grado l'incondizionato che impone all'interlocutore un giudizio in cui è implicata la propria esistenza». La missione di Gesù ha dunque un «significato di conflitto, di contrasto violento, in definitiva di divisione tale da attraversare tutti gli assetti sociali e financo le coscienze meglio disposte»(39).
Ad allontanare da Gesù è dunque, per Gaeta, il rigore assoluto della sequela, la radicalità della sua predicazione, come mostrano i capitoli centrali del volume. L'immagine prevalente che di Gesù ci hanno trasmesso i Vangeli — osserva lo studioso — è quella di un «carismatico itinerante» che impone a chi intende seguirlo la rottura con l'ethos tradizionale esclusivamente in forza della sua parola (cf.29). Così estrema dovette apparire allora, e appare ancor più oggi, la richiesta di seguirlo e di lasciare ai morti il compito di dare sepoltura ai morti (cf. Mt 8,22; Lc 9,60), che andava non solo contro le tradizionali credenze religiose, ma contro quelle leggi non scritte custodite nel cuore di tutti gli uomini, cui s'appella ad esempio l'Antigone sofoclea contro Creonte, leggi che impongono il dovere di pietas verso i defunti.
Il detto sui morti che seppelliscono i loro morti esprime, secondo lo studioso, «la concezione che Gesù ebbe del mondo e del tempo; meglio, dell'essere al mondo nel tempo in cui il mondo finisce», «non a seguito di una profezia apocalittica (...) ma esclusivamente in forza del suo annuncio» (32) — ripreso e predicato al modo in cui lui stesso lo annunciò —. Tale detto esigeva pertanto la «fuoriuscita dallo stato di soggezione sociale», cioè «dalla mondanità considerata ormai per quello che è, l'opposto del Regno» (34).
A questo punto, non è dunque difficile comprendere la condotta di quei discepoli che, chiarisce il capitolo «I veri credenti» (49-58), il più coinvolgente del volume, all'inizio conquistati dal fascino della Parola, la trovarono poi eccessivamente «dura» e decisero di conseguenza d'abbandonare il maestro.
L'analisi del capitolo VI del Vangelo di Giovanni, che si apre con il miracolo della moltiplicazione dei pani e si chiude con l'autoproclamazione da parte di Gesù di essere «il pane vivo disceso dal cielo», che, in quanto tale, «costituisce l'unico vero nutrimento di vita eterna, perché cibandosene si è uniti misticamente a lui, come lui lo è con il Padre», segna, nell'interpretazione di Gaeta, il passaggio da una fede volta a riconoscere in Gesù il Messia, il cui avvento avrebbe anticipato e preparato l'instaurazione prossima del regno di Dio in terra, a una fede per la quale egli apre già fin d'ora l'accesso a una vita altra rispetto a quella mondana, ma a cui non è possibile accedere se non nutrendosi della carne e del sangue del Cristo in croce.
In questa prospettiva, è il Vangelo di Giovanni che esprime l'interpretazione mistica della predicazione di Gesù, interpretazione che, se certamente distanzia il racconto evangelico dalla realtà storica, la illumina però dall'interno «a vantaggio più dei credenti come singoli e come comunità d'amore che non delle Chiese istituite».
La predicazione del regno di giustizia da parte del nazareno è scandalosa perché implica una critica radicale della società e della storia, imponendo la scelta degli ultimi, degli emarginati, dei poveri, in una parola di coloro che patiscono il malheur, degli sventurati. «Coraggio e compassione sono — dunque — in Gesù aspetti inseparabili della stessa figura: occorre porsi fuori del mondo in tutta la misura possibile per riconoscere chi patisce la violenza mondana e rendersi partecipe della sua posizione» (36).
Non è una concezione del tempo lineare quella affermata dall'Evangelo, ma «puntuale», chiarisce il capitolo ultimo sulla fine della storia che dà il titolo al libro, per cui «parlare di storia della salvezza» è, secondo Gaeta, «fuori luogo» (93). Gesù invita al cambiamento il singolo che incontra nell'istante stesso in cui questi «sperimenta» la presenza sconvolgente di Dio nel tempo.
E questo invito è rivolto anche oggi da Gesù a ogni lettore attraverso i Vangeli, che intendono «rimettere in scena il dramma che la sua (di Gesù) irruzione storica aveva determinato nell'esistenza di quanti vi furono coinvolti, in modo tale che potesse essere rivissuto dai credenti attraverso la concretezza di situazioni la cui veridicità storica era assai meno rilevante del loro potere metaforico», e questo per permettere di cogliere quanto di decisivo tale vicenda aveva comportato e «doveva» comportare nella vita di chiunque ne fosse stato toccato.

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