Napoli Super Modern è un bel librone a curato dall’archistar franco-partenopea Umberto Napolitano a nome dello studio Lan (Local Architecture Network), che si propone di dare una lettura complessa della ricca e stratificata architettura del capoluogo campano a cavallo tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento. Già la scelta del periodo è significativa: la cesura non cade come al solito a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, a significazione del fatto che la continuità stilistica del disegno della città (e non solo di quella) segue logiche proprie, che vanno al di là della scansione storiografica cui siamo abituati.
L’architettura dell’epoca moderna, e in particolare quella del Movimento Moderno indagata in questo notevole volume illustrato pubblicato da Quodlibet, si manifesta a Napoli secondo caratteristiche peculiari, e lo sguardo del libro si cimenta nell’arduo tentativo di cogliere caratteri comuni in spunti che al di là della loro diversità particolare, mostrano ai piedi del Vesuvio una continuità più profonda, inscritta nella sua tensione a farsi città al di là dei vincoli storico-morfologici che escludono la possibilità della tabula rasa, del ripensare gli spazi da zero, una condizione comune a tante città italiane ma che nel caso del capoluogo campano risultano evidenti tanto nella stratificazione millenaria, quanto nell’attitudine a sfruttare i vincoli “morfologici, formali, tipologici e linguistici” (cito alcune parole del curatore Napolitano), che questo libro si propone di sottolineare.
Quello che si ammira sfogliando le pagine è un vero e proprio laboratorio di architettura moderna, in costante dialogo con gli esiti di un centro apparentemente lontanissimo e che invece, osservando le immagini, appare immediatamente più familiare: quello della Milano del dopoguerra, prima che lo sviluppo economico e sociale facesse allontanare le soluzioni formali rispecchiate nelle architetture delle due città. La rassegna proposta parte dal 1929 e dal Mercato Ittico, identificato come vero e proprio esordio del Movimento Moderno a Napoli, per concludersi nel con la costruzione dell’imponente edificio da Ponte di Tappia – porta ideale del nuovo quartiere Carità, ampliamento e prosecuzione del centro direzionale d’epoca fascista – firmato da Raffaello Salvatori nel 1963. Tra questi due estremi troviamo edifici noti e celebrati, come il Palazzo delle Poste (Giuseppe Vaccaro e Gino Franzi), Villa Oro (Luigi Cosenza e Bernard Rudofsky), accanto a spunti forse meno reclamizzati ma non meno significativamente innestati nella città, tra cui il Mercato ittico, la Stazione Marittima, l’Istituto Nazionale Assicurazioni (una sorta di Pirellone partenopeo), gli Uffici Finanziari e l’Avvocatura di Stato, il Padiglione dell’Albania, il Teatro Mediterraneo, la Stazione di Fuorigrotta della Cumana, il Cubo d’Oro e il Palazzo Della Morte (che nomi!), le Case popolari del rione Battisti, la Clinica Mediterranea, il palazzo d’angolo in piazza Municipio, il grattacielo della Cattolica Assicurazioni, la sede dell’Inps, l’edificio Riviera di Chiaia 206 e il Teatro Mediterraneo, un gioiello di riaggiornamento in salsa moderna di spunti puramente classici.
Fu Walter Benjamin a coniare per Napoli il concetto di “città porosa”, intuizione perfetta per sintetizzare l’osmosi di opposti che il capoluogo mette continuamente in scena, tanto nel manifestarsi dell’indefesso mutare delle sue forme fisiche, quanto di quelle umane e relazionali. Una città dunque di cui Benjamin, più o meno involontariamente, ha contribuito a perpetrare il mito dell’unicità, dell’irriducibilità, dell’eterna contraddizione, una città porosa nonché la sola al mondo costruita sul suo doppio sotterraneo, sulle cave di tufo legate al suo stesso mito di fondazione. Per quanto riguarda il declinarsi della Napoli moderna a confronto con questo passato viscerale e inalienabile, in uno dei saggi più interessanti del volume, Andrea Maglio afferma che “quello napoletano si configurerebbe quindi come un ambiente a suo modo “anti-moderno”, dove non nascono modelli ideali ma dove la cultura del moderno è “adattata”, piegata alle circostanze, mediata attraverso interpreti, magari debolmente assimilata a quella “parata di grandi spunti” che pure costituisce una caratteristica della “modernità”. Non si tratta solo della mancanza di modelli ideali, ma anche dell’assenza di una vera e propria tensione verso l’idealizzazione”.
Nelle pagine introduttive Umberto Napolitano istituisce un paragone tra due momenti architettonici all’apparenza molto lontani che pure hanno saputo declinarsi in modo in qualche misura affine – almeno a livello olistico – nel tessuto partenopeo: “Layout stradali irregolari, continue variazioni di altezza, preesistenze architettoniche e archeologiche diventano elementi discriminanti del progetto anche quando il mainstream tende a definire parametri assoluti e invarianti, come nel periodo dell’eclettismo del XIX secolo e soprattutto in quello moderno”. E ancora, presentando il senso complessivo del volume, afferma “L’ipotesi di questo studio è che si possa definire una qualità latente dell’architettura moderna napoletana: la rinuncia a definire modelli astratti e idealizzanti e la capacità, se non la necessità, di misurare il progetto con il contesto fisico, storico, sociale e paesaggistico. Esistono pochissimi esempi di edifici napoletani che possono essere isolati dal loro contesto e considerati in modo indipendente. Nella stragrande maggioranza dei casi, il contesto non è solo un elemento che entra nella definizione dell’idea di progetto, ma è il suo punto di partenza decisivo, essenziale ed esplicito”.