Se sia più Kitsch stampare un fascicolo di rivista con oltre seicento pagine, la cui caratteristica è quella,
da sempre, di offrire materiali utili alla
comprensione di un tema o l'opera di un
personaggio, oppure arrivare alla fine e
dover ammettere - nonostante un articolato questionario "proustiano" a cui
tentano di rispondere ventisette intellettuali - che le molteplici idee dei convocati a questa sfida impossibile non fanno, tutte insieme, un quadro più leggibile
della questione, ma si condensano ancora nella domanda iniziale: che cos'è il
Kitsch? Che con una semplice elisione
dell'articolo determinativo diventa: che
cosa è Kitsch? Tutto oscilla fra queste due
questioni.
Se non fosse un giochetto fin troppo facile, agli eroici compilatori di questa antologia che forma il numero 41 della rivista "Riga" - Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone - intitolato appunto Kitsch, si potrebbe rispondere che il Kitsch
non esiste ma al tempo stesso che il Kitsch è, più o meno, in tutti noi. Il Kitsch è
una creazione del disgusto intellettuale
borghese e diventa poi un frutto dell'immaginazione attiva delle società democratiche e la lingua in cui questa immaginazione si esprime è la sintesi di un
modo di essere: il PopKitsch. È lo stile
delle democrazie fondate sull'economia
del consumo e sulla caduta delle gerarchie di valore che già aveva colto Clement Greenberg nel 1939 quando scrisse il celebre saggio su Avanguardia e Kitsch: «Sono messe in discussione tutte le
verità implicate nella religione come l'autorità, la tradizione, lo stile e scrittori e
artisti non sono più capaci di valutare la
reazione del loro pubblico», da qui la premessa del critico americano: «Diventa difficile presupporre qualsiasi cosa».
Già Baudelaire sosteneva che un artista
lo valuti anche osservando il suo pubblico. Fin qui ci siamo. Ma la novità è che al
tempo del poeta francese già si coglievano i sintomi del Kitsch imminente: i salon non erano forse il palcoscenico di un Kitsch dove il valore di esposizione incontrava i desideri di una società borghese che chiedeva arte di consumo? Sì,
ma che arte! E anche il consumo era diverso, non di massa certo. Eppure il valore delle cose esposte - moltissime oggi dimenticate - non basta a salvare i salon dal giudizio che li pone all'origine
della mercificazione dell'arte. Ma l'arte,
si dirà, è sempre stata pagata. È vero, da
chi con molti soldi comprava l'opera per
goderne da solo e come segno della propria condizione esclusiva, oppure, senza alcun pensiero di lucro, con intenti
pedagogici, interni a precise ritualità, oppure nel sacro come memoria e gloria al
divino. I salon invece sono il luogo laico
dove il "mercato" da realtà deputata agli
scambi sui beni più o meno necessari,
diventa un teatro dove l'esposizione di
un'opera è simile alla messa in vetrina di
una donna che vende la sua bellezza.
Noi siamo eredi di questa cultura dell'esposizione che grazie alle tante innovazioni tecniche e comunicative diventa ostentazione. Ed è proprio con questo ostentare che tutto comincia a giocarsi
anzitutto sul denaro: chi ne ha, chi ne fa
tanto, chi insomma è un protagonista del
capitale in azione investe una parte dei
propri proventi per mostrare al mondo,
con nuovi totem spettacolari, il proprio
potere economico ma anche per elevarsi nella sfera culturale. Autorappresentazione. Chi ha tanto capitale, dopo aver
incentivato i propri affari, ne investe una fetta cospicua fingendosi mecenate,
cioè acquistando sul mercato dell'arte
oggetti esclusivi - magari un discutibilissimo SalvatorMundi o il dipinto di un
contemporaneo strapagato che a ogni asta accresce il proprio valore -, creando
musei che sono in realtà sofisticate forme di marketing con le quali si moltiplica l'aura non dell'opera d'arte ma del
loro possessore, viaggiando per immagine in rete, entrando nelle memorie digitali con una forza di amplificazione inedita rispetto al passato.
Si chiedeva Greenberg nel 1939 se non
fosse necessario esaminare la questione
in modo più originale. E il «diventa difficile presupporre qualsiasi cosa» adesso è ancor più calzante di allora: la frantumazione della coesione sociale e la
riaggregazione su valori assai mutevoli e
instabili, che cambiano in fretta seguendo le campagne di condizionamento del gusto, rende impossibile trovare un accordo su che cosa sia, per esempio, Kitsch. Può essere il catalizzatore del disprezzo di chi si sente nella
cultura alta, o del sentimentalismo di chi
di un oggetto dice: "Che carino!". Esiste
anche il Kitsch perfetto, ne parlava tanti anni fa Giovanni Klaus Koenig - uno
che avrebbe dovuto essere presente in
quest'antologia con almeno un brano (ci
sarebbe stato solo l'imbarazzo della scelta). Perché il Kitsch non è il brutto o il
cattivo gusto, ma il come se ne fa uso a
fini estetici. Per esempio, col Kitsch le
antitesi non funzionano bene: difficile
concordare con Leo Löwenthal quando
sosteneva che il Kitsch è l'antitesi della
cultura pop.
Vent'anni dopo Greenberg Harold Rosemberg scrisse: «la vita e il Kitsch sono
diventati inseparabili». Lo vediamo tutti i giorni. Ma se in ogni opera d'arte, secondo Hermann Broch, c'è un po' di Kitsch, allora si deve tentare di dire perché
esso sia una sorta di prezzemolo estetico della modernità. Un altro studioso che
sarebbe caduto a fagiolo in questa antologia: ma non c'è, Hans Sedlmayr, sostenne che tutto cambiò nel Settecento
quando proliferarono le camere degli
specchi e s'impose la «preponderanza
del finto». Non l'inautentico, ma qualcosa che imita e agisce di riflesso sull'autentico. Non voglio infilarmi in un
vespaio ma l'egualitarismo democratico è una forma di Kitsch. La parabola dei
talenti fa da controprova. Ma, ancora, il
finto: il turista è un finto viaggiatore.
Viaggia ma non gl'importa affatto di conoscere a fondo ciò che incontra, gl'interessa soltanto goderne. Il viaggiatore
invece è uno che arriva in un posto, ci
resta abbastanza per conoscere un po'
quella realtà, vuole capire che cosa ha
davanti non guardandolo ma condividendo quell'angolo di vita. Cerca, insomma, di entrarvi dentro. Il turista è
Kitsch, il viaggiatore no. Siccome i turisti - Covid permettendo - sono un soggetto antropologico dominante, che partecipa al sistema del consumo, se ne può
dedurre che Kitsch è molo diffuso, anche se - per citare Umberto Eco - inavvertito, cioè come un «peccato commesso senza volerlo». Il Kitsch in fondo
è banale, ma nel Novecento abbiamo visto che la "banalità" può essere causa di
un male atroce...
E qui torniamo al nostro G.K. Koenig —
che era nipote della signora Lenci, quella delle bambole — il quale ebbe a spiegare un caso di Kitsch perfetto: il radiombrello. Perché perfetto? Perché assolveva a due funzioni che fra loro non
avevano alcun legame e nessuna coerenza estetica: riparava dalla pioggia i
tanti che andavano allo stadio e prendevano posto in curva, ma se pioveva, avendo la radiolina nel manico, permetteva ai tifosi di seguire in tempo reale la
cronaca delle altre partite così da essere
informati sulla posizione in cui si sarebbe trovata la propria squadra in classifica. Che dire? Chapeau.
Il Kitsch può essere dunque anche divertente, ma in realtà è una cosa seria,
ben diversa dai nani dei giardini, perché
è diventato il testimonia) del capitalismo
(e si potrebbe aggiungere come lo fu anche del comunismo, se si considera che
i suoi dinamismi tipici sono inclusivi, omologanti e, soprattutto, operano per
sfruttamento tanto delle nostre pulsioni quanto della nostra volontà, come è
tipico dei sistemi totalitari). Lo spiegò
bene nel 1953 Dwight Macdonald: il Kitsch viene dall'alto, non dal basso, è un
prodotto di poteri che cercano di addomesticare la gente proponendo loro una
idea di cultura per le masse. Ma questa
cultura — aggiunge Macdonald — è una
creazione dei "Signori del Kitsch". Forse
per questa ragione anche l'avanguardia
di massa di cui parlava Greenberg oggi
è diventata un'accademia del consumo
che propaganda l'arte come merce e trasforma le città in circhi estetici.
Quando dicevo della frantumazione
dell'ordine sociale alludevo a quel passaggio sostanziale dalla società interclassista a una che comprende soltanto due semisfere: far parte del grande
ceto affluente o esserne esclusi. E per
farne parte non devi per forza avere soldi, non devi essere ricco o benestante,
può bastare una certa aspirazione alla
cultura, un ambito di lavoro nel terziario avanzato, una partecipazione adeguata a consumi che attestano l'elezione in quel ceto di vincenti. Ecco perché
alcuni prodotti — quelli tecnologici per
esempio — sono così ambiti anche da
chi fatica a entrare in una certa scala di
reddito. Anche questo è Kitsch. Avere
certi oggetti o determinate dotazioni
oggi significa socialmente star bene o
star male secondo i parametri della società dei consumi. Questo è Kitsch, ma
la vita è un'altra cosa.