"Io sono un uomo istruito, leggo costantemente libri importanti, ma ciononostante, non ho
ancora capito che indirizzo prendere. Non so se, insomma, voglio
vivere o spararmi".
Le considerazioni di Epichodov all'inizio del secondo atto del
Giardino dei Ciliegi di Cechov sarebbero state l'epigrafe perfetta per
un piccolo volume recentemente
uscito per Quodlibet dal titolo
Postcritica. Qui l'autore,
Mariano Croce, presenta a noi contemporanei
avvezzi al "post-molte
cose" una prospettiva di
studio che non si contrappone alla critica (di
cui è post) con manie di
sovversione o annichili
mento (postmoderno!
postverità!), ma vi si
affranca, mite, sorniona
e allegra - come segnala
sin da subito la legatura tra suffisso
e sostantivo: postcritica.
Tornando a Epichodov, comunque, mi sembra che il povero contabile tormentato dalla sciagura ricordi quell'atteggiamento candido
e arrogante che ha segnato il Novecento delle scienze umane e da cui
la postcritica prende le distanze.
Come Epichodov, anche filosofia, critica letteraria e teoria sociale hanno a lungo visto nei propri
dispositivi teorici degli apparati
infallibili per comprendere, cogliere e spiegare il mondo. Così come
il personaggio di Cechov, i critici
hanno esercitato la professione dei
contabili: hanno creduto di poter
imbrigliare il senso delle cose e cogliere il significato profondo della
realtà grazie al loro linguaggio
tecnico, fatto quando non di cifre
almeno di griglie interpretative
e schemi concettuali. Con il suo
metodo, la teoria critica non solo
consente di leggere questa materia
mondana, capricciosa e volatile,
ma ha un potere in più: quello di
penetrare nei meccanismi profondi che regolano, organizzano e
informano il reale così da poterlo
comprendere davvero. Libri e critici, apparato teorico e linguaggio
sono le lenti telescopiche che, mediante una "mediazione cognitiva" consentono di afferrare eventi
e oggetti, accadimenti e fatti al di
là del loro emergere contingente.
L'armamentario critico pone tra
teorico e mondo una distanza che
mette il primo su un piano distinto
rispetto al secondo, così che questi
possa dedicarsi indisturbato, impermeabile e imperturbabile, allo
studio dei fenomeni senza venire
ingannato dal loro turbinare. In
questo modo, la teoria soverchia il
mondo e il teorico critico rischia di
rimanere intrappolato nelle griglie
concettuali sedimentatesi nel tempo e leggere ogni evento alla luce di
un sapere di cui è stato - insieme
ad altri profeti del passato - artefice.
Una cultura che irreggimenta
la natura, una mente che cattura
la materia muta, un soggetto che
opera su oggetti inerti fanno della
teoria un paesaggio asfittico, un disco rotto che ripete la stessa solfa,
un'Idea fissa" (dice Croce, citando
Valéry) che non consente di dare
conto delle nuove articolazioni
e ricombinazioni dei fenomeni.
Perché, del resto, i libri di Epichodov raccontano di cose accadute,
ma sono ignari degli accadimenti
in corso. Ecco, la postcritica parte
proprio dalla consapevolezza che
c'è bisogno di un cambio di prospettiva per evitare di assumere
una postura impositiva (un'impostura!) che invece di rendere cristallino il creato, ci rende creatori cristallizzati
nelle nostre teorie.
Croce racconta questo cambio di passo
seguendo le tre strade principali che la
postcritica percorre. La
prima è la strada dell'asignificanza. Questa è
la via che abbandona
l'idea di un linguaggio
quale "architrave delle
pratiche umane. Linguaggio che
spiega e rende possibile ogni altra
pratica: la meta-pratica per eccellenza". Per fare ciò, la postcritica
trova nei concetti gli strumenti che
consentono al soggetto parlante
non tanto, non solo di afferrare il
mondo circostante, ma piuttosto
di collocarsi al suo interno, individuando i nodi salienti che concorrono a formare un'esperienza,
quell'esperienza. Per la postcritica,
il linguaggio "traccia connessioni
e
crea legami tra le cose, anziché imporre loro un significato". Ed è qui
che si imbocca la seconda strada,
quella della materia. Nel momento in cui il teorico smette di fare il
ventriloquo e imporre alla materia
la sua lingua già significata, la materia stessa emerge come "materia
viva" che "mette la lingua in uno
stato di variazione continua". Alle
cose del mondo viene riconosciuto
il ruolo di attivi concorrenti nella
determinazione degli stati psichici,
emotivi e cognitivi dei soggetti. Si
pensi, per rimanere in Cechov, al
valore dei ciliegi per Ljubov' protagonista e proprietaria del giardino.
Sono i ciliegi che rendono pregiato
il terreno e se venissero tagliati per
fare del giardino un appezzamento di terra edificabile questo non
avrebbe più nulla di interessante,
a
dispetto della rendita che potrebbe
procurare. La mediazione cogniriva del commerciante Lopachin,
che vuole lottizzare il terreno,
è
sorda e un po' ottusa: non vede la
stretta continuità tra Ljubov' e i ciliegi, i ciliegi e famiglia di Ljubov:
e il suo bambino annegato, e la sua
infanzia, e il maggiordomo Firs.
Lopachin, quando guarda il giardino, vede solo numeri, non alberi in
fiore né materia viva. La sua "teoria
economica" taglia la "mediazione
connettiva" che costituisce l'esperienza di Ljubov: Nel rifiutarsi di
immaginare il giardino come oasi
dei palazzinari, Ljubov' intraprende la terza via, la via degli affetti