Esiste un giorno mirabile nella
vita di Fernando Pessoa: l'8 marzo 1914. Nel farne la cronistoria
in una lettera, probabilmente la
sua più importante, oltre vent'anni dopo (13 gennaio 1935), è lo stesso
poeta portoghese a indicarlo come il suo
«giorno trionfale». Cos'era accaduto?
Un'autentica moltiplicazione delle personalità poetiche, si direbbe. Anche se poi,
va subito precisato, quelle diverse personalità non costituivano una sua diretta
emanazione, nel senso che non potevano
essere considerate davvero sue. Fin dal
loro primo apparire si trattava invece di
autori con una fisionomia, un carattere,
una storia e modi espressivi del tutto propri; uomini, e più specificamente poeti,
che prendevano parola secondo le loro
particolari ragioni, al punto da ridurre
lui, Fernando Antonio Nogueira Pessoa,
al ruolo di semplice spettatore passivo, di
un medium che non poteva che attestarne e trascriverne l'autonoma, prepotente
affermazione alla vita.
Uno dopo l'altro Alberto Caeiro, Riccardo Reis e Alvaro de Campos, vale a dire i più importanti tra i cosiddetti eteronomi dell'autore portoghese (altri ancora
ne verranno strada facendo) entrano in
scena in quello stesso giorno, arrivando
chissà da dove come fossero già in tutto
compiuti e realizzati, irrimediabili. Non
tanto degli altri io, dunque, ma persone
diverse, che da questo momento s'affiancheranno, in qualità di autentici pari grado, a quell'altra persona poetica che più o
meno accidentalmente portava lo stesso
nome dell'autore (è in portoghese pessoa
significa proprio questo: «persona»).br>
È chiaro che la situazione intera sfiora
il cortocircuito, ma da quel giorno le poesie di Fernando Pessoa per lo più si vorranno scritte da autori che non solo non
si chiamano, ma non sono Fernando Pessoa. «In tutto questo — spiega ancora il
poeta — mi pare di essere stato io, creatore di tutto, il minore di quanti lì si trovavano. Pare che tutto avvenne indipendentemente da me. E pare che ancora sia
così». Se l'atto della creazione resta tutto
sommato insondabile, certo Pessoa ha
espresso come pochi il processo di spersonalizzazione, d'eclissi dell'io (il poeta
come un signor nessuno), e ancora di reversibilità e d'equivoco tra io e altro, da
cui ha origine la parola poetica. Non a caso ha parlato di sé come di un semplice
«esecutore». Per quei lettori e critici, e
sono tanti, convinti che la poesia moderna e contemporanea sia il genere dell'egocentrismo senza ritorno, dell'autoriferimento, dell'indifferenza all'altro o
agli altri, si danno qui motivi inoppugnabili per ripensare daccapo la questione.
Le tante riflessioni del poeta su questi
argomenti, compresa ovviamente la lettera che si è ricordata, si possono leggere
adesso in un bel volume curato da Vincenzo Russo per Quodlibet, Teoria dell'eteronimia, con una prefazione di Fernando Cabral Martins. Attraverso le argomentazioni di Pessoa si approda infallibilmente al cuore stesso della poesia. E
infatti un'intera antropologia poetica a
venire attivata e, al contempo, a essere
messa alla prova in queste pagine: il rapporto tra autore e io poetico, realtà e finzione, empatia ed estraneità, e insieme le
questioni dell'identità personale, dell'immaginazione, della verità. Questioni
anche complesse, se vogliamo, ma che il
poeta riesce a toccare nel vivo e a chiarire,
perfino a riconfigurare, con una semplicità e una pacatezza ammirevoli, come se
non dovesse far altro che testimoniare
quanto gli è accaduto.
«L'autore umano di questi libri non conosce in sé stesso alcuna personalità», ha
scritto ancora Pessoa. E di questa reversibilità paradossale, di questo strano gioco
tra essere e non essere può offrire subito
una prova l'antologia Fantasie di interludio (1914-1935), curata dal già ricordato
Cabral Martins e riproposta da Passigli.
Comprende tutte le poesie in portoghese
pubblicate in vita dal poeta (ad eccezione
della raccolta Messaggio) sia eteronome,
sia sotto il proprio nome, le cosiddette
ortonime (diversi e capaci i traduttori,
ma è comunque un peccato che manchi il
testo in lingua originale). Nel complesso,
si tratta di un tentativo di ricostruzione
tutt'altro che infondato, viste le dichiarazioni piuttosto esplicite dell'autore
al riguardo — del libro per altro mai realizzato a cui Pessoa intendeva affidare
l'immagine più compiuta e fedele di sé
stesso.
Ma sé stesso chi, a questo punto? A chi
appartengono, a nome di chi parlano
queste poesie? «Forma lontana e incerta/
Di ciò che mai avrò... /Sento poco, e quasi piango, / perché piango non lo so»...
Come ha scritto José Sararnago, ed è forse
la sola conclusione possibile, «questo
Fernando Pessoa non riuscì mai a essere
davvero sicuro di chi fosse, ma grazie al
suo dubbio possiamo riuscire a sapere
un po' di più su chi siamo noi».