Faceva gesti clamorosi, come Picasso. Si avventurava in percorsi perigliosi, come Pollock. Provocava, come Cage.
Suonanava con la tromba la stessa lingua di Debussy, Charlie Parker,
Ellington, Stravinsky, James Baldwin e Jimi Hendrix. Come
Bob Dylan scandalizzò gli amanti del folk con l'esibizione
"elettrica" al Festival di Newport, Miles Davis (1926-1991) terrorizzava i critici, intellettuali, docenti della Juilliard, puristi,
sapientoni dello spartito, e non di rado anche i colleghi. Tutti, tranne chi se ne infischiava dell'equazione Cool - Bebop + Improvvisazione = Free Jazz. Non si era
fatto fottere dall'eroina, ne era uscito da solo e senza fare pubblica ammenda,
chiuso in una stanza, soffrendo come un cane e tirando di boxe; non si sarebbe
fatto fregare dall'industria né ammansire da astuti consiglieri. Si faceva largo
con le idee, sempre controcorrente, in un'America in lotta per i diritti civili e reduce dall'esperienza beatnik dove gigioneggiare alla Armstrong sarebbe stato
inopportuno, soprattutto dopo due album eruditi e rivoluzionari come Birth of
the Cool (1957), col meglio delle session incise dal nonetto degli anni 1949-50, e
Kind of Blue (1959), con il settetto di cui facevano parte anche John Coltrane e Bill
Evans. Avrebbe potuto riposare sugli allori, invece era solo l'inizio. Ci sarebbero
stati cambiamenti a catena, innovazioni, sperimentazioni, e anche qualche terremoto - per trent'anni, a partire da Sketches of Spain (1960), fino a Doo-Bop
(1992), ultimo album di studio.
Bob Gluck, pianista, storico del jazz, rabbino e professore di musica, sui cataclismi sonori causati dal genio ha scritto un libro, Miles Davis, il Quintetto Perduto e altre rivoluzioni (Quodlibet), che sottolinea la vitalità dell'artista in quella
«specifica, magnifica, rivoluzionaria stagione musicale inestricabilmente connessa con il periodo storico nel quale era immersa» - a partire dagli album In a Silent Way e Bitches Brew. Nel 2016, quando il volume fu pubblicato negli Usa, ancora si favoleggiava sul "quintetto perduto" (con Wayne Shorter, Chick Corea, Dave Holland e Jack DeJohnette) che (nel 1969) non era mai entrato in studio. Vero,
ma c'è un The Lost Quintet, cd registrato dal vivo in Olanda nel periodo di Bitches
Brew e pubblicato in forma di semi-bootleg nell'estate del 2019 (anche su Spotify), che conferma le visioni di Gluck. Miles era a caccia di musica totale, assetato
di contemporaneità; lo raccontano il suo look, l' artwork delle copertine dei dischi, l'atteggiamento da rockstar, l'imprevedibilità, l'anticonformismo, l'ammirazione per Santana, Hendrix e Prince (e i flirt con Michael Jackson e Cyndi Lauper), ma soprattutto un jazz progressivamente in bilico tra musica contemporanea e street credibility. Non c'è dubbio, oggi sarebbe dalla parte di Kendrick Lamar e Moses Sumney.