Il volume Per una critica dell’economia turistica.
Venezia tra museificazione e mercificazione (pref.
di Giovanni Attili), uscito di recente da Quodlibet
per la collana Materiali IT (2020, pp. 251), di
Giacomo Maria Salerno, affronta con una
ricchissima documentazione, ma anche con una
prospettiva militante, il processo di
«patrimonializzazione, museificazione e
mercificazione» delle città storiche (p. 20) – effetto,
e prima ancora condizione, dell’organizzazione industriale del turismo di massa.
Mettendo a frutto categorie interpretative sorte nel secondo ’900 dalla rilettura
dei Grundrisse di Marx – opera la cui presenza è del resto echeggiata fin nel titolo
del libro – Salerno coglie la relazione di una metafora “estrattivista” come
“petrolio d’Italia” (riferita al nostro patrimonio storico) con la natura essenziale
del capitalismo contemporaneo, particolarmente incline alla rendita predatoria.
La tesi è che sia la «stratificazione storica del tessuto urbano, espressione
materiale di una cultura e di una produzione comuni sedimentatesi nel tempo»,
a essere messa a rendita dal capitale nell’industria turistica (p. 225). Il libro
mostra dunque, con un’indagine «storico-genealogica» (p. 21), come questo
modello economico estrattivista e monoculturale si sia imposto su scala globale
e in particolare a Venezia.
l primo capitolo, “Scenari globali”, delinea l’emersione del turismo in epoca
moderna, sia come fenomeno antropologico ed economico, sia come oggetto di
studio e di critica (p. 89). In esso Salerno individua un fenomeno essenzialmente
“nostalgico”, un prodotto della rivoluzione borghese, cioè dell’individualismo
romantico e del capitalismo. Il turismo è considerato «l’industria che più di tutte
ha saputo capitalizzare l’inesauribile desiderio di esperienza che caratterizza la
nostra epoca» (p. 85). Il concetto di «autenticità», oggetto della peculiare
nostalgia turistica, viene di conseguenza decostruito e demistificato.
Il secondo capitolo, “Scenari urbani”, indaga le fasi della trasformazione
dell’esperienza urbana e il modo in cui queste hanno consentito che la città
antica, «resa inattuale dalle forze dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione
planetaria» (p. 90), trovasse una sua seconda vita come centro storico. Per
un’eterogenesi dei fini, sarebbe stata proprio la «nuova sensibilità
conservativa», nata in reazione all’industrializzazione, a porre le condizioni per
lo «sfruttamento spettacolare del passato» (p. 95).
Con il terzo capitolo, “Scenari lagunari”, si giunge al caso paradigmatico di
Venezia, la città che per prima si è specializzata nell’uso economico
dell’immagine di sé stessa, fin dall’epoca dei pellegrinaggi in Terra Santa. Un
fenomeno che per molti secoli è stato gestito soggettivamente, in autonomia,
dalla comunità cittadina, e che solo in un secondo momento è sfuggito ad essa
di mano (p. 165), raggiungendo una scala che ha invertito «i rapporti di forza tra
i differenti soggetti coinvolti nella relazione» (p. 166) e alienato
progressivamente la città storica ai suoi abitanti, espellendo le classi meno
abbienti.
Di fronte all’apparente ineluttabilità del destino turistico delle città
deindustrializzate e terziarizzate, l’epilogo – “Indizi per un nuovo uso della città
storica” – rivendica un «diritto alla città» inteso come «giustizia sociale e
spaziale». Rispetto al problema veneziano, impostato per la prima volta da
Pompeo Molmenti a inizio ’900 (salvare Venezia dalla museificazione ma
preservarne al tempo stesso la straordinarietà architettonica, p. 213), Salerno
propone di «non dare per persa la città storica», ma di affrontare «il problema
di come continuare a farla vivere a partire dalla sua comunità» (p. 214),
rifiutando il «paradigma museale» e al tempo stesso resistendo puntualmente
«ad ogni tentativo di appropriazione e privatizzazione» (p. 225).
Scritto prima dell’esplosione della pandemia globale, il libro mostra
lucidamente che non è alla normalità pre-Covid che bisogna augurarsi di tornare,
perché proprio quella “normalità” era il problema.