Recensioni / Vimercati il fotografo del tempo

Tre decenni di fotografia. In un minuto. Una sintesi fulminante che racconta Franco Vimercati e il suo minimalismo in bianco e nero asciugato da qualsiasi digressione psicologica. Tutto è affidato allo scorrere del tempo. Un minuto di fotografia sintetizza il titolo della mostra da Raffaella Cortese dedicata a Franco Vimercati (Milano, 1940-2001). E tratto dalla primissima serie che questo maestro della fotografia del silenzio, come l'aveva definito Paolo Fossati, dedicava agli oggetti umili che abitavano attorno a lui: sveglie, listelli del parquet, bicchieri, tele bianche. Avrebbe spalancato da lì in avanti la sua analisi sul mondo inanimato delle cose, presenze anonime del quotidiano, le meno connotate e simboliche, ai margini del nostro orizzonte visivo. Nella mostra scandita nelle tre sedi della galleria, che con lui apriva la sua attività nel segno del rigore e della poesia (25 anni fa), si materializzano mattonelle, brocche, bottiglie, una zuppiera (il soggetto più ricorrente ripetuto dal 1983 per 10 anni). «Il catalogo ricondurrebbe a Giorgio Morandi», spiega il curatore della mostra, Marco Scotini, che ha appena presentato anche un libro sull'autore (edizioni Quodlibet). «La sua opera è un archivio del tempo». Pittore di formazione, grafico di professione, schivo intellettuale convertito alla fotografia, negli anni Settanta era vicino a Luigi Ghirri e Ugo Mulas. Erano i tempi della più analitica e concettuale delle serie di Mulas, le Verifiche. Vimercati fa un primo campionario di volti nelle Langhe nel 1973. L'anno dopo, l'attenzione si sposta agli oggetti. Il primo, senza qualità (all'apparenza), era una sveglietta, in metallo. Nel 1974 la fotografava ogni 5 secondi fino allo scadere di un minuto. Ciascuno scatto, in sequenza, mostrava una variazione impercettibile, da scovare nella corsa inesorabile della lancetta dei secondi. La fotografia si mostrava così come un'azione ripetitiva che aspirava a essere meccanica. L'inquadratura era frontale. L'illuminazione piatta. La sfocatura faceva svanire lo sfondo. Un'altra opera domina il focus sugli anni Settanta. È dedicata a una sequenza di bottiglie d'acqua, una serie di 36 fotografie, come il rullino Kodak conteneva. «Per me è di fondamentale importanza che l'oggetto finale del mio lavoro sia discreto, poco ingombrante, leggero e fragile, come può essere solo un foglio di carta toccato dalla luce», svelava in un'intervista Franco Vimercati, che conquistava con le sue stampe uniche, un collezionista come Panza di Biumo, attento alle espressioni più minimaliste. Mai accomodante, la sua sintesi radicale rifuggiva il grazioso, il gradevole. Non si concedeva esercizi di stile. «Aveva l'intransigenza e l'ascetismo tipico del concettuale degli anni Settanta, ma andava oltre». Nella magia e nel calore poetico dell'atto fotografico, Vimercati insegna a cogliere la libertà nella rigida economia di mezzi. Gli oggetti appaiono così capovolti, sfocati, in serie e formati diversissimi. «È un maestro del paradosso del tempo», racconta Scotini. «È il paladino di un'autentica politica dell'attenzione. Nel 1991 appuntava su un foglio: cerco di essere il più semplice possibile proprio perché la protesta sia il più efficace possibile». Oggi, nel vortice costante di distrazioni in cui siamo immersi, tra intrattenimenti e spettacolarizzazioni assortite che invadono il nostro quotidiano e scavano nel nostro tempo, da Tik Tok a Instagram, la sua opera ci appare come un esercizio interiore. In un certo senso, una rivoluzione.