Dice Giancarlo Gaeta: «Da quando sono in pensione vago». Nel senso che,
svincolate dagli obblighi
accademici, le sue letture si sono fatte
più errabonde, nomadi, libere. Ma per
tornare a sbattere magari contro gli
interrogativi di sempre.
A riprova, l'ultimo, smilzo però densissimo libro Il
tempo della fine. Prossimità e distanza della figura di Gesù (Quodlibet, pp.
122, euro 14). Classe 1942, per anni
docente di Storia del cristianesimo
antico all'università di Firenze, Gaeta
è, tra l'altro, lo studioso che in Italia
ha maggiormente contribuito alla conoscenza del pensiero di Simone Weil.
Ovvero di colei che alcuni - chi scrive
incluso - considerano la più alta mente filosofica del Novecento e che riaffiora anche nel Tempo della fine.
Ma fine di cosa? Prossimità e distanza da chi, da che cosa? «Da anni» dice il
professore nella sua casa a ridosso della collina di Fiesole, «lavoro sulla natura dei testi evangelici. Che per i credenti sono scritture ispirate, dunque perfettamente attendibili, sulla vicenda di
Gesù Cristo. Mentre la critica storica
ne ha dato letture svariate. Ebbene, la
mia idea è che i Vangeli siano animati
da un contrasto. Perché da un lato furono scritti mezzo secolo dopo i fatti o,
come nel caso di Giovanni, a 70-80 anni
di distanza. Ma in quella lontananza
temporale cercano di ricreare una vicinanza con Gesù, di renderlo nuovamente presente nella fede».
Operazione telescopica. Soggetta al
rischio di qualche deformazione
ottica.
«Certo. Nessuno degli evangelisti è
stato testimone diretto, contemporaneo di Gesù. Ognuno di loro si pone il
problema del linguaggio con cui comunicare quella vicenda alla comunità
della quale fa parte. La morte di Cristo,
quel tipo di morte, ha prodotto un trauma, ha spezzato il legame tra lui e i suoi
seguaci, ha scavato un vuoto, una mancanza, un'assenza. Ma proprio di quel
vuoto si nutrirà la fede dei credenti».
Però anche in vita Gesù Cristo attira a sé i discepoli in una sorta di
vuoto che li sgancia dalla loro esistenza precedente, mondana.
«In effetti la chiamata è immotivata,
sconcertante. Nessuno dei discepoli
spiega perché abbia scelto di seguirlo,
di mettersi nelle sue mani abbandonando famiglia e lavoro, lasciandosi
alle spalle la cultura religiosa da cui
proviene».
Lei legge quel "salto" come una forma di possessione ai limiti della follia.
«Quell'esperienza si consuma in
una dimensione ambigua, pericolosa.
Ma alla radice c'è la rottura dello stesso Gesù con il proprio ambiente religioso e sociale. Si è molto insistito sul
suo contrasto con le istituzioni religiose dei farisei, per esempio. Si è invece
sottolineata meno la frattura, più radicale, di Gesù con i propri familiari, o
almeno con la famiglia intesa come
circolo chiuso, costringente. Liberandosi da queste cose, Gesù si pone in
conflitto con i poteri, mette tutto in
subbuglio».
Giudica il proprio tempo condurezza.
«Sì ma siccome i
rappresentanti delle
istituzioni religiose o
sociali hanno ognuno
le proprie buone ragioni, la figura di Gesù
non è riducibile all'aspetto giudicante. C'è
anche un Gesù che
guarisce, benedice,
consola, perdona. Che
si pone insomma su
un livello di drammaticità non "alla Savonarola", per capirci.
Un Gesù che non dice:
"Siete tutti cattivi e il
demonio è ovunque"».
Veniamo a quello
che lei chiama il
"tempo della fine": a
che cosa mette fine
la vicenda di Gesù
Cristo?
«Al tempo mondano concepito come
processo, sviluppo lineare. Con Gesù,
almeno secondo i credenti, il tempo
finisce non perché si arresti, ma perché
si biforca in due tempi: un tempo ordinario e uno escatologico».
Cioè, sintetizzando, imperniato sul
concetto di salvezza.
«Il rimprovero che più di frequente
Gesù rivolge ai propri contemporanei
è quello di essere incapaci di distinguere questi due tempi che coesistono:
il "suo" e quello in cui vivono. In seguito, lo stesso Paolo inviterà i credenti a
non rinnegare il tempo mondano ma a
viverlo tenendolo insieme all'altro».
In che modo?
«Con la formula del "come se". Paolo non dice: "Non sposatevi". Dice:
"Sposatevi ma vivendo come se non lo
foste". Non dice: "Non comprate". Dice:
"Comprate, ma come se il denaro non
avesse importanza"».
Equilibrio complicato. Quasi sofistico.
«Infatti nella storia del cristianesimo questo contrasto, questo scarto tra
i "due tempi" resterà insuperabile. Già
dal II secolo la Chiesa cerca di ricomporlo ín un compromesso. Una soluzione che saldi il tempo mondano
dell'ingiustizia, della violenza, dell'infelicità, della morte, con quello radicale dell'escatologia che è invece un
tempo pacificato, liberato da tutto ciò».
Successivamente, che forme assumerà questo compromesso?
«Le forme di un'istituzione religiosa che, indebolendo la radicalità della visione escatologica, recupera l'idea mondana di un tempo lineare. Un
tempo provvidenzialistico del quale
la Chiesa si fa mediatrice e che, a seconda, ha come fine il Giudizio universale, l'Apocalisse... Immagini che
segneranno la cultura cristiana per
secoli, creando dogmatismi, rigidità,
la convinzione di essere portatori di
verità assolute. Agostino approva l'idea che si possa convertire anche con
la forza perché si tratta di una forza
a fin di bene».
Però, diversi secoli dopo, un Pascal
reinterpreta Agostino in tutt'altro
modo: per lui è perfettamente legittimo e perfino logico che un uomo
non creda.
«È vero. E questo dimostra che, malgrado la dogmatizzazione e l'ideologizzazione, nella storia del cristianesimo rimane sempre attiva una coscienza di senso contrario».
Ma oggi siamo oltre. Se non compiutamente, l'Europa è ormai quasi del
tutto scristianizzata. Si tratta di un
fenomeno passeggero o di una "fine"? Per dirla in termini difficili, di
un "cambio di paradigma" epocale?
«Viviamo un cambio di paradigma.
La storia del cristianesimo come l'abbiamo raccontata fino adesso è finita.
Nella loro configurazione attuale le
strutture ecclesiastiche potranno durare ancora per qualche decennio,
arrivare alla fine del secolo, ma le condizioni "creative" della loro sopravvivenza sono ormai venute meno. Pensi
solo a come è cambiata la percezione
comune del cattolicesimo nell'arco
degli ultimi trenta, quarant'anni. A
quanto si è modificata non dico rispetto ai tempi di Pio XII, ma a quelli
di Paolo VI o dello stesso Wojtyla. In
pochi decenni sono successe cose
inimmaginabili. Naturalmente, non
si tratta di una crisi cominciata oggi
o ieri. Già a inizio Novecento figure
come Albert Schweitzer o Rudolf
Bultmann erano perfettamente consapevoli di quanto la modernità stesse radicalmente sconvolgendo assetti, consuetudini, mentalità».
Bergoglio ne è altrettanto consapevole?
«Penso proprio di sì. I suoi comportamenti, spesso sorprendenti, non si
possono spiegare se non come quelli
di un Papa che ha totale coscienza della crisi in atto. Di uno che ha avvistato
la fine del cristianesimo».
Una fine che adesso si manifesta
come?
«Per esempio nel fatto che quella di
una qualsiasi trascendenza sia ormai
diventata una questione insensata.
Nel sentire comune letteralmente priva di senso».
Con il tramonto dei miti della Rivoluzione o dei Progresso, la trascendenza, ossia l'idea di un futuro liberato, che non sia una semplice
estensione potenziata del presente,
è sparita anche dall'orizzonte laico.
«È stata sostituita da qualcosa di
più terra-terra, da una visione del
tempo come dimensione puramente
accrescitiva, fatta di macchine tecnologicamente sempre più avanzate, di
un'economia pensabile solo come un
infinito sviluppo...».
Tanto Simone Weil quanto Walter
Benjamin attaccano la visione della
Storia come linearità. Ma per motivi diversi.
«Secondo Benjamin lo storicismo
corrompe l'idea "messianica" di rivoluzione. Mentre per Weil, nell'Europa
degli anni 30, sono tutte le ideologie ad entrare in crisi.
Compresa quella storicistica. Secondo lei, si tratta di
una crisi terminale che investe anche
l'istituzione ecclesiastica. Sia l'uno
che l'altra avvertono che la storia
dell'Occidente è giunta a un punto critico irreversibile».
Di crisi in crisi arriviamo a quella in
corso: dal punto di vista di un credente, come è pensabile un post-cristianesimo?
«Nel libro mi rifaccio alle riflessioni
del gesuita francese Michel de Certeau
le quali, a mio avviso, possono aiutare
a comprendere anche certe scelte di
papa Francesco che oggi sconcertano
molti credenti. De Certeau, scomparso
nel 1986, riteneva che non fosse finita
soltanto la cristianità, ma la stessa
vicenda storica del cristianesimo come l'abbiamo conosciuta in duemila
anni. Per uscire dalla
crisi tratteggiò l'idea di
una Chiesa "diffusa",
cioè organizzata per
piccole comunità autonome. Era convinto che
non possa esserci fede
senza comunità. Ma una
fede non dogmatica.
Aveva ben chiaro che, nella modernità,
ciò che la Chiesa può ancora fare dal
punto di vista normativo dev'essere
legato alle pratiche comunitarie. Perché ormai la Chiesa non incide più, o
sempre meno, su mentalità e comportamenti. Della Chiesa non frega più
niente a nessuno».
Bergoglio si ritroverebbe insomma nel ruolo di traghettatore verso un altro tipo di Chiesa. Peso
enorme. L'uomo ha spalle larghe,
ma pur sempre 84 anni. E gli ostacoli non sono da poco.A cominciare dai più immediati: la secolare
egemonia delle gerarchie italiane,
per esempio.
«Non c'è dubbio. Papa Francesco si
ritrova nella condizione di un uomo di
potere che mette volontariamente in
crisi il potere. Una situazione che nella Storia è sempre stata molto rara.
Forse è un compito paragonabile a
quello che si assunse Michail Gorbaciov. Salvo che qui si non si tratta di
picconare l'Urss, ma una realtà più
solida,antica, millenaria».