Recensioni / Kafka. Pro e contro. I documenti del processo

L’attualità della lezione kafkiana viene documentata in maniera eccellente dal dibattito intercorso negli anni Cinquanta tra due suoi grandi lettori: Max Brod (biografo, amico di Kafka e curatore della pubblicazione degli scritti inediti) e Günther Anders (geniale filosofo e saggista tedesco).
Il volume raccoglie utilmente il saggio di Anders (il cui nucleo originario risale al 1934, alla conferenza parigina «Teologia senza Dio»), la recensione critica di Brod («Assassinio di un fantoccio chiamato Franz Kafka»), la replica di Anders e la controreplica di Brod (1952). Segue la postfazione della curatrice Barnaba Maj.
Anders ricostruisce la prospettiva – narrativa, non biografica – di Kafka, basandosi sulle sue famose cifre stilistiche: lo scrittore deforma le immagini e rappresenta un mondo assurdo, a cui i personaggi sembrano essersi assuefatti. Un mondo estraneo e respingente, i cui immutabili decreti colpevolizzano e «paralizzano» ogni nuovo arrivato, che vi si adatta in modo grottesco e umiliante. Nessun aldilà sollecita e sostiene un impegno di liberazione. Non c’è che un aldiquà, ove gli uomini sono ridotti a funzionari che ignorano il senso del loro mandato. Il Kafka agnostico, quale ateo che si vergogna di esserlo (cfr p. 81), quale ebreo che si sforza inutilmente di venire accolto in una nuova cerchia di appartenenza, rischiando la sottomissione masochistica o l’assimilazione conformistica, questo Kafka logorato dagli scrupoli alimenterebbe, con i suoi rituali di scrittura, una moda di rassegnata mortificazione. Chi non reclama diritti né cerca una liberazione, ma solo una redenzione privata, collude vittimisticamente con i veri criminali, che vorrebbero tramutare i martiri in loro zelanti funzionari.
Brod replica a questo ritratto di Kafka quale autore «moralmente inutilizzabile» (p. 63) distinguendo tra l’autore reale e i suoi memorabili personaggi letterari. Kafka fa sentire al lettore il raccapricciante universo di estraneità, reificazione, anaffettività che tutti sperimentiamo come servi di un’ordinata, meticolosa gerarchia impiegatizia, dove le consuetudini devono continuare a funzionare senza che venga mostrato il senso dei loro ingranaggi, dove la religiosità accetta di diluirsi in un sentimentalismo secolarizzato e l’etica virtuosa si stempera nell’ossequio – alimentato da fantasmi persecutori – a una vita tecnicizzata.
L’opera kafkiana denuncia per via indiretta tale deriva. Kafka non è quindi un disfattista né razionalizza l’ingiustizia, ma suscita, come ogni moralista originale, un vissuto di protesta, il desiderio di una prossimità interpersonale autentica e l’attesa di un Dio buono. Scrive Brod: «Il “messaggio dell’imperatore” che viene da Dio è frenato da mille istanze intermedie, “ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera”, dice Kafka» (p. 121).