Recensioni / Le lettere di Jacob Taubes a Gershom Scholem. Il rabbino, la sinistra e l'attesa del Messia

Lo scontro, a un certo punto, sembrò assumere i toni di una finale di pugilato, tanto fu aspro, violento e perfino surreale, visti i protagonisti della nostra storia: un maestro che non desiderava quel l’allievo, ma ne subì l’irruenza; e l’allievo che inseguiva il maestro, con la ferma intenzione di
distruggerlo. E nella distruzione vederne la rinascita. Questo fu, in buona sostanza, il lungo, estenuante e strategico confronto tra Jacob Taubes (1923-1987) e Gershom Scholem (1897-1982). Tra un rabbino straordinario perché capace di negare il proprio stesso ruolo, e il massimo esperto di cabbala, l’impareggiabile studioso di mistica ebraica, amico di Benjamin e suo biografo.
Scholem ammirò il talento e la violenza argomentativa di Taubes, pur temendone l’irruenza devastante, quella sottile vena anarchica (ingovernabile) che sottendeva alla sua tesi. Taubes si inchinò alla grande cultura di Scholem, al monumento vivente, ma al fondo il desiderio era demolirne le basi su cui poggiava. Solo vedendolo nella polvere avrebbe potuto accettarne l’autorità.
A raccontare questa vicenda - che come vedremo ha implicazioni sia teologiche che politiche – c’è ora un libro di Jacob Taubes edito da Quodlibet: Il prezzo del messianesimo (pagg. 207, lire 36) curato da Elettra Stimilli che vi appone una intelligente postfazione. La conoscenza italiana di questo autore che ha scritto pochissimo è recente. Nel 1996 sempre Quodlibet pubblicò In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, l’anno dopo videro la luce da Garzanti Escatologia occidentale e da Adelphi il fondamentale La teologia politica di San Paolo, un seminario che Taubes tenne poco prima di morire.
Il prezzo del messianesimo si compone di alcuni brevi saggi su Scholem, fra cui uno dedicato a Scholem interprete di Benjamin, degli appunti di un seminario tenuto nel 1984-85 su Le tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, e infine di un gruppo di lettere che Taubes inviò a Scholem tra il 1947 o il 1979. Non ci sono le risposte di Scholem, ed è un peccato. Nessuno sa che fine abbiano fatto. L'unica, piuttosto lunga e piccata, presente nel libro, segna la definitiva rottura tra i due. Rottura provocata, come vedremo, sia da questioni teoriche che da ragioni private e personali. La partita teorica - aspra e capziosa con una tensione sovente spinta al limite della rottura - è condotta da Taubes sul terreno del confronto fra cristianesimo ed ebraismo. Non si tratta, per sgombrare il campo dagli equivoci, di una sfida meramente religiosa, ma piuttosto di qualcosa che coinvolge la teologia nei suoi rapporti con la politica. Per Taubes la linea che divide ebraismo e cristianesimo è molto meno netta di quanto pensi Scholem.
E' su questo terreno che i due si contendono la figura di Walter Benjamin e in particolare i suoi rapporti con Carl Schmitt. E' noto che Benjamin scrisse a Schmitt una lettera (censurata nella edizione curata da Adorno e messa in circolazione da Taubes) nella quale gli manifestava gratitudine teorica per quel tanto che del suo pensiero era travasato nel Dramma barocco tedesco, un testo oscuro, nato per il dottorato e che mise in grave imbarazzo la commissione esaminatrice che alla fine respinse Benjamin. Che cosa avevano in comune il cattolico costituzionalista del Reich e l’ebreo che finì suicida per sfuggire alla Gestapo? Si direbbe che il terreno su cui si incontrano è quello della teologia politica. È quello in cui la politica, chiamata a un compito originario, non ha più il ruolo di assolvere a un servizio tecnico organizzativo (una forma di agire modellata su relazioni di potere, si pensi a Weber), ma decide per così dire della sua stessa sovranità che è tale solo perché agisce nello stato d'eccezione.
Chiunque può vedere quanto le posizioni di Schmitt (e trasversalmente quelle di Benjamin) siano lontane dal liberalismo la cui dottrina ha fatto della separazione tra teologia e politica uno dei capisaldi del proprio sviluppo). E d'altro canto se quello è il terreno sul quale si dispiega la critica di entrambi, è pur vero che esso apparentemente nasce da sponde opposte. Lo sfondo schmittiano trae origine dal mondo controrivoluzionario di De Maistre, Bonald e Donoso Cortés. Quello benjaminiano si lega a una lettura originalissima del messianesimo È questo, come ci pare ha mostrato acutamente Agamben nel recente Il tempo che resta (edito da Bollati &Boringhieri), il vero punto di snodo che collega Benjamin a San Paolo. Prima di Agamben è stato Taubes a segnalare i legami sotterranei fra l’autore dei Passages e l’estensore della Lettera ai Romani.
E alla fine è proprio questo nesso Benjamin-Paolo che pesa e condiziona il rapporto fra Scholem e Taubes, fra un acuto contabile che vuole risistemare l’eredità del pensiero ebraico e un geniale fabbricante di botti che ama spaventare chi a quella eredità si accosta in modo troppo prevedibile.
Agli occhi di Taubes, Scholem incasellò Benjamin tra i pensatori geniali, ma per così dire disinnescandone la carica eversiva. Non è al marxismo di Benjamin che egli alludeva. In fondo quell'esperienza dottrinaria si legò alla sostanza del suo pensiero con la colla e lo spago. Ben altro effetto aveva la questione messianica agli occhi di Taubes, convinto com' era che Scholem l’avesse fraintesa.
Dire "messianesimo" è aprire una questione complicata. La novità taubesiana - che Agamben spinge lucidamente alle estreme conseguenze - è che il messianesimo (il suo tempo) è qualcosa di profondamente diverso dal tempo apocalittico. Fra le due entità c’è uno scarto, una "durata", un resto che rende diverse le prospettive e fondamentali le conseguenze. In Scholem apocalisse e messianesimo fanno tutt’uno. Ai suoi occhi il nesso fra distruzione e redenzione è troppo pericoloso per essere vissuto nella storia. Già l’ebraismo rabbinico, durante l’esilio, aveva consegnato il popolo a una vita vissuta nel differimento. Spaventato dalle conseguenze della "fantasia messianica", dice Taubes, anche Scholem finì con il negarne l’ingresso nella storia.
Fin qui non c'è nulla di nuovo rispetto a quanto ci raccontò con dovizia di esempi Karl Löwith. Per lui la moderna preoccupazione del futuro aveva il suo fondamento nel profetismo ebraico e nell'escatologia cristiana. Da Isaia a Marx, da Agostino a Hegel, passò l’idea che la storia non avesse solo un termine ma anche uno scopo: la realizzazione di un regno universale.
Ma in fondo non è il fallimento di questa prospettiva - vissuta fra illusione e aberrazione - a collocarci dalla parte di Scholem e delle sue cautele contro l’impazienza eversiva di Taubes? Scholem regola i suoi conti con la storia separandola nettamente dal messianesimo. Storia e redenzione hanno per lui cammini diversi. Da questo punto di vista, nessun principio di speranza può realmente entrare nella vita di un uomo o di una collettività, che non sia quella del rimando e dell’attesa.
E' entro questo muro di realismo che Taubes si gettò, con il rischio di farsi molto male. Ma di una cosa in fondo era convinto, una cosa che Scholem ignorava: la fantasia messianica, come insegnava Paolo, riguardava la coscienza. «Una volta che il Messia abbia fallito nel suo tentativo di redimere il mondo esteriore, come si può definire altrimenti la redenzione, se non come un rivolgimento interiore?», si chiedeva Taubes. Fu così del resto che Paolo «aprì la porta alla coscienza introspettiva dell’Occidente". Ma dove avrebbe portato questa inedita prospettiva? In prima battuta a un ridimensionamento della Legge e a una rivalutazione della fede. In ultima analisi a un ripensamento radicale della politica.
In questo ripensamento non c'è spazio per Scholem. Taubes sceglie Schmitt. Di quest’ultimo egli  i trascorsi nazisti, le tirate positive sul Führer. Ma nonostante ciò c’è qualcosa di necessario e oscuro che lo attrae. Ed è la stessa cosa che aveva fatto drizzare le orecchie a Benjamin: l’idea che "Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione". Questo squillo di tromba schmittiano mise sull’attenti Benjamin e poi Taubes. Entrambi ci videro, più o meno segretamente, un richiamo a Paolo e al suo messianesimo. Ed è ciò che Scholem trovò profondamente pericoloso.
Il litigio con Taubes ebbe anche ragioni personali. È probabile che prima il divorzio e poi il suicidio di Susan Taubes, avvenuto nel 1969, abbia reso più aspro il silenzio sceso fra i due. Silenzio che Taubes cercherà di rompere, ma senza risultati: «Lei, il grande Scholem», scrive, fra lo sprezzante e l’ironico, nell’ultima lettera datata 1979, «ha detto a Susan Sontag e a suo figlio cha con Taubes aveva conosciuto il male radicale in persona. Abbiamo riso molto su questo fra amici, e pensavamo che un cabbalista del suo rango non avrebbe dovuto raggiungere i cinquant’anni per conoscere il male radicale». Ecco chi fu quest’uomo ironico e spietato che attraversò l’idea di rivoluzione come un paradosso, al punto da farci chiedere in conclusione che cosa rappresenta la sua storia per tutti noi. Potremmo chiamarla, questa storia, «I1 rabbino, la sinistra e la lotta di classe perduta».
Leggevo qualche giorno fa il bell’articolo di Adriano Sofri Se anche un rigore può riscrivere la storia, uscito su Repubblica il 27 giugno. L'ho letto non pensando al revisionismo che ormai ha intasato i siti della storia, e del quale si può dire solo che è un modo di fare piccola politica con altri mezzi. Mi colpiva piuttosto la domanda - credo tutt’altro che retorica - che Sofri ha formulato: «Ci si può aspettare qualcosa dal passato? Si può sperare nel passato?».
Fateci caso. Trent'anni fa la parola passato sarebbe stata sostituita dalla parola futuro. Non era per quello che alcuni lavoravano? Ed è perciò che nella frase di Sofri si scorge una piccola, impercettibile inversione messianica. È la stessa che vigila la fantasia benjaminiana, quando parla del balzo di tigre nel passato, e che in seguito mobiliterà l’intelligenza faziosa di Taubes.
L'escatologia, malgrado la secolarizzazione, non ha dato i frutti sperati, il futuro - nelle lineari e ottimistiche utopie- ha riservato imbarazzo, delusione e morte. Dove andare e a chi rivolgersi? Il viso dell’angelo benjaminiano è rivolto al passato. Nella celebre immagine vi si legge non tanto la delusione per quello che la storia ha in serbo per noi, ma scetticismo per i mezzi ideologici a disposizione e per le limitate, ancorché ambiziosissime, risorse umane. Non siamo dèi, è un fatto. Ma siamo ancora uomini? Diceva Scholem che l’esistenza ebraica «è una tensione che non trova mai appagamento». Era un modo per riacchiappare il futuro dalla coda, mentre scappava via. Un modo per lasciare aperta la porta all' idea che un giorno, non si sa quando non si sa dove, nonostante tutto il nomadismo e l’irrequietezza, saremmo diventati migliori e più felici.
È questo umanesimo, non detto, verso cui strizza l’occhio Scholem a infastidire Taubes. Perché il passato non è la storia, o non è tutta la storia. Il passato non sono gli uomini e le loro azioni come le abbiamo conosciute e ricostruite. Perché se così fosse saremmo all' ennesimo bilancio, all’ennesima rilettura: tra vincitori e vinti. E di questo che si è nutrito il progresso, nella convinzione che male che vada la storia ha sempre un punto di vista superiore, anche quando, deludendoci, inverte improvvisamente la rotta. E ci fa vedere molto più chiaro il nostro fallimento.