“Naturalmente con il giro delle stagioni arrivavano le nuove leve, gli squadroni dei nuovi rampolli della nostra scuola e della città; e ognuno
arrivava all'appuntamento convinto che il mondo non aspettasse altro che lui, oppure stizzito se
gli sembrava che aspettasse un altro invece che
lui. Ognuno per trenta o quarant'anni là a mostrare i suoi vestiti, a fare i suoi confronti, i suoi
commenti, e poi via, passato ad altre eterne.”
Gianni Celati, "Costumi degli italiani"
Quodlibet , 252 pp.
Gianni Celati vive tra l'Italia, l'Africa e
l'Inghilterra (da molti anni a Brighton), ma è
sempre un ferrarese, uno scrittore con la provincia padana nella testa e nelle dita. Quel
tipo di malinconia e di comicità è inconfondibile e indimenticabile, come sono i portici e
le piazze, i vicoletti acciottolati e la stazione
di notte in cui fermarsi a parlare sempre della stessa donna, quella che al liceo li ha fatti
impazzire tutti, la Susanna Zarri. Questi racconti, uniti dal titolo "Costumi degli italiani",
sono come un romanzo frastagliato e rimontato, mostrano con dolcezza gli "eroi pascolanti" che ogni volta ritornano, con i loro tormenti, con le fissazioni che cominciano in
quarta ginnasio e sono capaci di condurli al
manicomio. L'adolescenza, la giovinezza, l'età adulta, lo smarrimento che non passa e il
sesso che aleggia misterioso sopra ogni cosa,
ma soprattutto quella
mancanza di orientamento, e forse anche di coraggio. C'è in questi pascolanti un'accettazione indolente del proprio destino, nella provincia degli
anni Sessanta, la rassegnazione anche verso l'isolamento e l'infelicità.
Pucci che fuma una cicca
dietro l'altra sul materasso nel giardino di suo nonno, Bordignoni che
si innamora della barista Rossana e ogni
mezz'ora va a ordinare un caffè, finché viene
ricoverato in ospedale dopo un coccolone.
Gianni Celati sa trasformare l'amarezza in
comicità, ma non si può non soffrire per questi personaggi di secondo piano, che il mondo
non ha mai aspettato, a cui non ha mai rivolto
una seconda occhiata. Ci sono però anche le
provvisorie celebrità, gli uomini in odor di
benessere, le vedove con il petto in fuori. Anzi, ci sono tutti.
"Adesso succede questo: torno a casa e non
trovo più mio fratello, poi vengo a sapere che
mio padre l'aveva mandato via e non voleva
più vederlo sotto il suo tetto. Questo perché
sospettava amori segreti tra mio fratello e
mia madre. Terribile idea! Il fatto è che il mio
povero genitore subiva tante umiliazioni dagli aguzzini della sua banca che dopo gli venivano delle fissazioni tremende, con voglie di
morire odi spaccare tutto". Così il figlio deve
nascondersi in soffitta, dove la madre gli porta di nascosto da mangiare, e intanto il padre
ciabatta in pigiama per casa come un re Salomone decaduto, con una continua voglia di
fare l'amore con sua moglie e di farle giurare
che nessun incesto è mai avvenuto.
Succede questo: che il mondo corre, ma in
provincia corre più piano, corre più dentro,
non è ancora tutto squadernato, e le facce ritornano una volta e poi ritornano ancora, e
allora alla fine nessuno viene davvero dimenticato.
"Zoffi era lungo e magro, Barattieri più
grasso, Fregatti medio e già caldo in giovane
età. Amos grassoccio e sbrindellato. Io un
quindicenne con l'aria confusa. Che vita!
Quanti anni passati a parlare! Quante parole
buttate al vento! Quanti libri letti e dimenticati! E poi le selve d'amore! E le nausee d'amore come quelle venute a Zoffi, caduto innamorato di sua cugina Urania. Io vorrei sapere dove sono andati a finire tutti quanti, e
se siamo davvero esistiti, se è proprio questa
la vita. Oppure è tutto un errore, solo dei lampi, brividi, non si sa". Non si sa se questi siano versi, o un canzone, o solo costumi degli
italiani.