Recensioni / Nel vivo del dibattito italiano sul messianesimo irrompe Jacob Taubes. Taubes, la croce tesa

Dopo la pubblicazione di In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt (Quodlibet 1996), del primoo e unico vero libro, la tesi di dottorato sull'Escatologia occidentale (Garzanti 1997), e del seminario sulla Teologia politica di Paolo (Adelphi 1997), appare ora un tassello decisivo per ricostruire della figura del grande rabbino, «teologo rivoluzionario» Jacob Taubes: Il prezzo del messianesimo. Lettere a Gershom Scholem e altri scritti (Quodlibet, pp. 206, L. 36.000), a cura di Elema Stimilli, autrice anche di un'acuta ed esau­tiva postfazione, che colloca precisamente le lettere inedite e i saggi riuniti in questo volume al centro della costellazione fondamentale di Taubes: tra Schmitt, Paolo di Tarso, Benjamin e, appunto, Gershom Scholem. Se il rapporto personale tra i due è breve, dal 1949, quando il giovane studioso della tradizione escatologica si reca a Gerusalemme, al 1951, anno della rottura definitiva, il confronto con le tesi scholemiane segnerà tutta la vita di Taubes. Si tratta innanzitutto di quanto, nell'ottica assunta da Scholem, distingue il messianesimo genuinamente ebraico dal contesto religioso cristiano: mentre il primo si atterrebbe a un concetto di redenzione che avviene nella sfera pubblica, «sulla scena della storia e nel medium della comunità», il cristianesimo la concepirebbe «come un evento che accade nell'ambito dello spirituale e dell'invisibile», e «nell'universo-privato di ogni individuo». Questa distinzione, tanto schematica da sembrare ironica, condiziona però un passo fondamentale della teoria di Scholem: in seno a un ebraismo così definite non restano infatti alternative tra la tragica deriva dei movimenti per cui il messia si e palesato - il sabbatianesimo, ma soprattutto l'eresia frankista - e, d'altra parte, la vita di una comunità che dell'avvento conosce solo l'attesa, e che Scholem appunto chiama vita vissuta nel differimento. Così, dinanzi al fallimento sul piano storico della sua istanza di redenzione, un movimento può resistere solo pagando, come il chissadismo, il «prezzo» più caro: conquistare l'interiorità dei fedeli, rinunciando al regno messianico.
Ora, proprio la separazione tra interiorità e messianico è quel che Taubes rifiuta. L'interiorizzazione non è riducibile alla sfera del privato e dello psicologico, non spinge verso un'estraneità al mondo ma costituisce una tensione irriducibile con esso: rientra perciò nella logica immanente del messianesimo ebraico, e anzi comporta la revoca di ogni partizione sommaria tra ebraismo e cristianesimo. La chiave di Taubes è dunque Paolo di Tarso, lo zelota a cui egli per la prima volta, contro Scholem, ha saputo restituire un ruolo eminente nella grande corrente dell'ebraismo. Il messia che viene sconfitto è crocifisso secondo la Legge, apre, nella sfera «interiore» di Paolo, alla scelta antinomica più radicale: così proprio quel che fallisce da un punto di vista estraneo alla redenzione coincide con l’evento messianico per eccellenza - la fine della Legge. Questo svolgimento nel senso dell'interiorità, cioè di una forza che scorre, come controcorrente, net tempo mondano, consente allora di smontare anche il falso problema dello scacco e della dilazione infinita. Il prezzo di cui parlava Scholem è di sicuro un prezzo che va pagato, poiché l'interiorizzazione custodisce l'intensità messianica e si configura, rispetto al mondo comune, come costante possibilità di compimento. Ed è qui che Taubes fa incontrare Paolo con Benjamin: «la redenzione non significa una rivoluzione finale, posta alla fine della storia. Qui il messianico viene disseminato all'interno della storia e delle generazioni». Affrancata da ogni rimando al soggetto psicosomatico, la parole interiorità indica quindi una pura disseminazione di tonalità messianiche nel contesto storico-mondano. Sembra strano allora che nel saggio su Benjamin marcionita moderno Taubes estremizzi la separazione fra ordine teologico e ordine profano, con una forzatura probabilmente discutibile (ma esplicita) rispetto al complesso rapporto in cui lo stesso Benjamin li concepisce nel Frammento teologico-politico.
Ma a ben vedere tale scelta interpretativa risponde a una ragione squisitamente polemica: il bersaglio è ancora Scholem, anche nelle pagine più strettamente dedicate a Benjamin, così come, secondo il procedimento tipico di Taubes, quando si tratta di Scholem è sempre in gioco l'opera del grande studioso quale canone interpretativo di Benjamin. È stata dunque un'ottima scelta quella di proporre in appendice alla prima sezione del volume (la seconda è dedicata alle lettere), i protocolli, redatti da J. R. Lawitzschka, del corso universitario tenuto da Taubes sulle tesi benjaminiane di filosofia della storia. Sebbene non sia rimasta, come per il più celebre seminario su Paolo, una trascrizione completa, queste pagine costituiscono senza dubbio una delle lettere più ricche e originali delle Tesi - si pensi all'intuizione, oggi sviluppata e provata da Giorgio Agamben, secondo cui nella celebre formula della debole forza messianica «bisogna leggere 'debole' in senso paolino», o a definizioni che restano esemplari nella loro chiarezza: «Benjamin introduce l'idea della fine nel tempo stesso. E ciò significa un'irruzione puntuale e fulminea. Il giorno del giudizio non è un giorno tagliato fuori dagli altri». Così, nei nostri giorni, agisce anche quell'arte della digressione polemica di cui Taubes è maestro: a lui non sfugge lo strano accordo tra personaggi lontani come Scholem e Adomo, ma uniti come curatori delle lettere del comune amico Benjamin (per quanto riguarda invece l'edizione delle Opere Complete, egli scrive semplicemente a Scholem: «sul Benjamin ufficiale dell'Archivio preferisco tacere»); né sfugge il senso della glorificazione accademica di Scholem in Germania, in cui riconosce una neutralizzazione del tenore eversivo, una riduzione a discipline della «scienza senza nome» scholemiana. È per questo che Taubes ha intrapreso (con il termine che Benjamin adottò dai romantici) una «mortificazione» critica dell'opera del suo maestro; ed è riuscito davvero a interiorizzarla, sottraendola al «monumento» per farla «risorgere, piuttosto, a nuova vita». Quanto il suo tentativo sia ancora urgente, quanto meriti una citation a l'ordre du jour, lo dicono gli studi sulla cabbala usciti in Italia negli ultimi tempi (e spesso confezionati dal grande editore sotto forma di libro rilegato e costoso): una versione grottesca dell'insegnamento di Scholem, in cui la moda dell'esoterismo e la neutralizzazione scienfico-accademica fanno tutt'uno.