Recensioni / La strana scelta di Céline spiegata da Pierluigi Pellini interpellando la storia

Le scelte incongrue degli scrittori celano enigmi che fanno la gioia del critico letterario, quando gli riesce di illuminarne il senso. Nel caso di Céline che nel suo capolavoro, Viaggio al termine della notte avvolge nell'antropologia della guerra l'ontologia dell'uomo, accendere qualche lume esegetico è insperata e tanto più tangibile consolazione: ce ne offre un saggio Pierluigi Pellini, la cui indagine prende avvio da un dettaglio di Casse-pipe, frammento di romanzo la cui scrittura è interrotta dalla precipitosa fuga di Céline da Parigi all'arrivo degli Alleati, nel 1944. Nella sessantina di fogli che rimangono, con l'inventività verbale che gli è propria, lo scrittore fa muovere sul fronte della Grande Guerra un allucinato manipolo di soldati incaricati di dare il cambio alla sentinella della polveriera. Il drappello ha dimenticato la parola d'ordine che consentirebbe di avvicinarsi ai commilitoni senza essere falcidiati. Sono gli spasmi epilettici di una recluta che farfuglia a restituire la parola alla memoria, ed essa suona «Marguerite», inspiegabile nome di fiore e di donna, laddove consuetudine e verosimiglianza avrebbero piuttosto suggerito luoghi di battaglie celebri, nomi di eroi.
Le spiegazioni che la critica ha fornito di questa scelta, da parte dello scrittore francese, sono sembrate a Pierluigi Pellini richiedere un supplemento di analisi poiché — scrive nel suo recente saggio, La guerra al buio Celine e la tradizione del romanzo bellico (Quodlibet, pp. 96, € 12,00) il «Céline degli anni Trenta... è sempre, al tempo stesso, naturalista e onirico, radicato in un'esperienza oggettiva e capace di deformarla».
E dunque, da un lato, il titolo del frammento rimanda dall'innocente «tirassegno» dei parchi di divertimento (questo il significato etimologico di Casse-pipe), all'atroce esperienza biografica dello scrittore, che si ritrovò bersaglio vivente al fronte, nell'orrendo luna park della Grande Guerra, sebbene ci sia chi tende a cogliere nella comica coprolalia del testo una ridente giovialità. D'altro canto, anche una raffinatissima analisi com'è quella di Jean-Pierre Richard, che legge in chiave di desiderio regressivo edipico tutto l'episodio (si chiamava Marguerite la madre dello scrittore) rischia di marginalizzare il dato dell'esperienza bellica, dunque la storia, a vantaggio del lato psichico.
Pellini cerca lumi, e a ragione, sul terreno della storia, e trova che nel nome di un eroe di guerra, Jean-Auguste Margueritte, comandante della divisione che, nella disastrosa guerra del 1870 contro la Prussia, si immola a Floing, e fu padre degli scrittori Paul e Victor, potrebbe essere ritracciata la soluzione della strana scelta di Céline. Ma anche la tradizione letteraria del romanzo di guerra parla a favore delle tesi di Pellini, rendendole ancora più interessanti. Le scelte narrative e stilistiche compiute da Céline acquistano nuovi significati in relazione a quelle proposte dalla coorte di scrittori (soprattutto francesi, ma non solo), che mostrano l'individuo alle prese con l'esperienza della guerra moderna. Sempre più tecnologica, essa riduce in frantumi ogni possibilità di comprensione e di controllo dell'individuo sulla realtà che lo travolge, lasciando alla letteratura il compito di esprimerne le fratture e l'angoscia riflesse nella coscienza degli uomini. Pellini fa dunque abilmente dialogare, tra loro e con Céline, lo Stendhal della Certosa di Parma, l'Hugo dei Miserabili, il Zola della Disfatta, il Tolstoj di Guerra e pace, fino a ipotizzare un'ardita «triangolazione intertestuale» tra Céline, Zola e Proust. Estetiche via via più spietatamente lucide, che germogliano dalle disillusioni e dagli smarrimenti del tempo, senza tuttavia precludere all'arte —piace sperare — assieme al privilegio che Céline gli riconosce di «allenare... la facoltà salvifica dell'immaginazione», rivelando l'abiezione intrinseca alla natura umana, la facoltà di aprire spazi altri di comprensione e di insperate possibilità.