Il libro di Elena Dorato pone varie sfide al lettore. È, come vedremo, scomodo, a tratti impertinente.
Lo è anche per il recensore: la ricchezza del testo rende, infatti, difficile trovare un punto di inizio della discussione. Forse, proprio questa complessità non
sottaciuta può aiutare il lettore a posizionarsi.
Si avverte, tuttavia, che, qualsiasi essa sia, sarà, come anticipato, scomoda,
in particolare per chi voglia assumere un approccio disciplinare: che sia esperto
di urbanistica, di salute pubblica, di attività motoria, di psicologia ambientale, di
educazione (senza la quale, lato sensu, è difficile immaginare cambiamenti comportamentali e nella percezione della vivibilità corporea della città) dovrà, infatti,
sovente abbandonare la propria posizione.
Non è, infatti, nelle epistemologie disciplinari che verranno trovate risposte
ma nelle fenomenologie minime, nell’integralità delle persone che vivono, percorrono, pensano lo spazio urbano.
Certo, come l’autrice ben evidenzia di sapere, la connessione tra urbanistica
e salute non è nuova né lo è quella, assai più recente, con la psicologia. Davvero
meno scontata e recentissima è, invece, la riflessione sulla connessione tra salute attiva e città, ovvero come l’intero contesto urbano sia o meno vettore di stili
di vita attivi. In questa piega, e non solo, giace l’originalità del lavoro proprio
perché centrare l’attenzione sui comportamenti spiazza le discipline garantendo
quella che, assicurata come interdisciplinarietà, sfocia sovente in una dimensione
transdisciplinare, necessaria per rappresentare la complessità.
Prima della descrizione del testo, ci preme sottolineare due tra le caratteristiche che lo attraversano.
La prima è l’individuazione puntuale dei momenti di svolta sul piano della
riflessione e dell’intervento: esempio ne sia il passaggio, descritto nel Paragrafo
III.2 della medicina preventiva, intorno agli anni ’80, dall’attenzione ai corpi a
quella sulla città tramite una sorta di “personificazione della città”. La seconda
riguarda una rassegna della letteratura approfondita e che, al tempo stesso, agilmente passa dall’uno all’altro ambito sempre nell’ottica della ricerca delle ragioni
che connettono i saperi.
Il primo capitolo si muove nell’ottica del superamento della dicotomia “human/urban” verso un’urbanity come determinante della salute e di comportamenti
fisicamente attivi e, aggiungeremmo echeggiando Alexander e Gehl, delle qualità
intrinseche della città e della sua vivibilità. Proprio in questo allargamento del
concetto, Dorato trova nelle qualità dello spazio pubblico le caratteristiche fondamentali per comportamenti attivi, soprattutto, riferendosi a Walzer, negli spazi
open-minded capaci non solo di accogliere ma anche di promuovere comportamenti inclusi quelli attivi.
Il secondo, corposo, capitolo (Modellare la città per la salute e il movimento)
è denso di rimandi continui tra corpo e città evidenziandone continuità e discontinuità e usando tale relazione come criterio per ripercorrere la storia dell’urbanistica. La strada, ampia e ben delineata, parte dall’antropomorfismo urbanistico
spingendosi a parlare di una corporalizzazione (bodification) dell’architettura e
della città per svilupparsi verso la scala umana e, citando Sennet e Grosz, anche
il suo contrario nella citification dei corpi come trasformazione dovuta all’immersione nell’urbano. Non ci dilunghiamo, qui, sui riferimenti più conosciuti
(Le Corbusier) ma sull’ardito parallelismo tra rigenerazione urbana e umana che
comporta una critica alla medicalizzazione del vivere (Foucault) e dell’architettura
stessa come corpo malato (Borasi e Zardini). Di questo “urbano” curativo viene
ripercorsa la storia e i principali protagonisti a partire dalla reazione del 18° e 19°
secolo alla malattia della città con uno sguardo interessato alle utopie urbane. Ma
solo una specifica attenzione al corpo, alla sua cura ma soprattutto alla prevenzione, ci fa scoprire i collegamenti con i sanatori, con le passeggiate nei boschi e, in
particolare, con i Turnplatz che, rappresentando forse la prima vera realizzazione
di spazi ginnici immersi nel tessuto urbano, legano la nascita delle scienze del
movimento (Jahn, Hébert) con l’urbanistica attraverso il ruolo fondamentale dei
parchi e del verde urbano. Sfondo a questa parte è rappresentato dalle connotazioni politiche che proprio il corpo, sano e controllato, subirà nella prima metà del
XX secolo.
La “scoperta” degli standard urbanistici (Wagner), così profondamente qualitativi e legati con la salute e la felicità dei cittadini anche grazie all’appropriazione,
da parte degli stessi, di spazi verdi e sportivi, non venne compresa, o meglio venne tradita, nell’applicazione pratica, mentre lo zoning iniziò ad affermarsi come
pratica razionalista che, collegata con la rapida crescita della motorizzazione,
portò verso la progressiva esclusione dei corpi dalla strada (“the very concept of
the street changed”) e verso la transizione “da attivi a sedentari” dei cittadini che
iniziavano a sperimentare le Limitless cities (Gillham) dello sprawl urbano.
Le riflessioni degli anni ’60 (Jacobs) portarono, insieme con la crescita di
consapevolezza dei movimenti ambientalisti, accresciuta dalla crisi petrolifera dei
primi anni ’70, ad azioni e progetti che si definirono nella legislazione olandese
sui Woonerf considerata un punto di svolta anche da Gehl.
I tempi sono maturi per un, almeno potenziale, nuovo urbanismo, che si affaccia sulla scena anche grazie a Rogers e alla Urban Task Force che delinea una
rinascita urbana cui fanno riferimento anche movimenti che promuovono il cammino (New Pedestrianism) alla luce delle preveggenti riflessioni di Mumford che
decenni prima parlava del rischio di morte della città causato dalle automobili.
Le sperimentazioni, quali gli Shared Spaces all’inizio di questo secolo, guardano ormai ad una relazione della città e dello spazio pubblico con il corpo come
premessa alla qualità e vivibilità degli spazi urbani, mentre lo sport, in particolare
la sociologia (Eichberg, Rail), cui aggiungeremmo la geografia (Bale), si interessa
sempre più di corpo nelle diversificate modalità della pratica declinate nel postmoderno e sovente praticate nello spazio pubblico (skateboard, parkour).
Il capitolo si chiude mettendo in luce i rischi di una deriva dell’ottica securitaria riassumibile nell’idea di un nuovo urbanismo militarizzato (Graham) che,
tendendo normativamente a proibire comportamenti dissonanti, limita altresì la
ricchezza e diversità della progettazione.
Dopo questa necessaria rassegna, eccoci, allora, nel terzo capitolo, alla proposta centrale del libro.
Qui la riflessione di Dorato parte dallo slittamento di attenzione della medicina verso l’ambiente (Macintyre) che segue quanto la psicologia aveva già iniziato
a prefigurare con Lewin negli anni ’30, verso l’assunzione di modelli ecologici
di salute pubblica che derivano dalle riflessioni sulla complessità. Tali modelli
(Bronferbrenner, Dahlgren e Whitehead) si concentrano poi sull’intreccio tra urbanistica, salute e attività motoria grazie a ricerche sul campo che sempre di più
si sono avvalse di strumenti tecnologici portatili e che hanno indagato non solo
gli effetti sulla salute di ambienti che facilitano il movimento (Active Living) ma
anche, in correlazione, le positive conseguenze ambientali dovute alla riduzione
nell’uso di mezzi motorizzati per gli spostamenti urbani (Sallis, Owen, Barton tra
gli altri). Dorato rimarca, tuttavia, come risulta dall’accurata rassegna di letteratura, che già gli spazi pubblici sono il principale luogo di pratica motoria e sportiva
in Italia e in Europa (Eurobarometro) e di come manchino ricerche-intervento
pre-post che misurino la variazione di comportamenti in seguito ad interventi urbanistici a parte, aggiungeremmo, lo strumento HEAT (Health Economic Assessment Tool) del WHO-Europe (Racioppi), centrato tuttavia sull’impatto economico.
Ed eccoci giunti alle Active Cities che completano il passaggio di attenzione dalla salute del corpo a quella della città. Qui Dorato ne ripercorre la breve
storia a partire dalla riflessione sulla rete delle Città Sane dell’OMS proponendo
un’inversione del binomio: da “una città sana è una città attiva” a “una città attiva
è una città sana”. Tale inversione non è solo un esercizio ma si consolida nella riconosciuta sottovalutazione di quanto l’attività motoria influisca sulla salute della
città. Per consolidare questa affermazione vengono citati esempi virtuosi, progetti
e reti che pongono il tema dell’active urban living come prioritario.
Ma Dorato, nell’ultimo paragrafo, compie un passo oltre il concetto di città
attiva con lo slittamento semantico “From Cure to Care” che ci ricollega a quel
concetto di urbanity che percorre tutto il testo e che esalta i processi sociali ed
educativi necessari per raggiungere gli scopi qui disegnati.
Le opportunità progettuali e di intervento nella città contemporanea vengono
viste proprio nella frammentazione e nella discontinuità che la caratterizzano e
nella cui identificazione e riqualificazione giacciono le potenzialità per rendere
attivi spazi “non ortodossi” se e quando vengano pensati come una struttura in
continuità che innervi la città. Ma, come ricorda l’autrice, le premesse di queste
considerazioni non sono nuove nel dibattito disciplinare ed è forse bene rifarsi a
tre fattori vitali individuati da Lynch (la struttura, condizione e densità urbana; le
infrastrutture per la circolazione delle persone; la distribuzione spaziale dei servizi e degli spazi verdi) per ipotizzare una città attiva che inverta l’attuale approccio
medicalizzato in un approccio socio-ecologico e pienamente urbano.
Conclude il testo un’acuta riflessione sulla relazione tra corpo, spazio pubblico
e salute in tempi di confinamento dovuto alla pandemia da Covid-19.