Recensioni / Attimi di possibile felicità

Una debolezza che può sembrare paradossale e una teoria radicale della contingenza e dell'attimo appartengono all'idea di messianismo. L'uomo, cui spetta la potenza messianica, non ha il potere di interrompere il divenire ma può intervenire nell'accadere storico e nella vita dei singoli, rifiutando la necessita del destino e scoprendo il «possibile» che in ogni attimo si nasconde

Una delle affermazioni più celebri delle tesi «Sul concetto di storia» di Walter Benjamin, e che noi disponiamo, rispetto all'accadere storico, di una «debole forza messianica». Si mancherebbe completamente l'intenzione di Benjamin, interpretando queste parole in senso difettivo o negativo: noi avremmo «solo» questa forza, e «purtroppo» essa non basta a redimere la storia. Giorgio Agamben ha recentemente mostrato come una paradossale debolezza appartenga all'idea del messianismo anche in uno dei suoi testi fondativi, le Lettere di S. Paolo: «Come la potenza messianica si realizza e agisce nella forma della debolezza, così essa ha effetto sulla sfera della legge e delle sue opere non semplicemente negandole o annientandole, ma dis-attivandole, rendendole inoperanti, non più in opera» (Il tempo che resta, Boringhieri 2000).
Per Agamben, la connessione del testo di Paolo con le tesi di Benjamin è strettissima: al punto che solo grazie ad essa l'apostolo conoscerebbe l’ora della sua «prima leggibilità». Questa lettura ha il merito di restituire la sua prima dignità all'idea del messianico, che viene invece spesso volgarmente trasferita dal contesto teologico in quello storico: allora essa esprime una pretesa assoluta di verità, autorizzata ad esercitare la violenza e il potere totalitario, par di raggiungere il suo fine. Non c'è dubbio che 1'espressione «debole forza messianica» venga usata da Benjamin anche in senso positivo e polemico, contro i due totalitarismi, che - al tempo in cui scrive le tesi - presumevano di possederne una «forte», destinata a concludere escatologicamente la storia.
Benjamin oppone radicalmente la prospettiva messianica all’idea di un progresso che dovrebbe prima o poi portare la storia a divenire «totalità realizzata». Certo, «il mondo messianico è il mondo dell'attualità universale e integrale», in cui ogni dolore e sconfitta del passato hanno trovato memoria e riscatto. Ma questa affermazione resta rigorosamente valida nell'ambito teologico, non è per nulla un compimento, o un ideale, del complessivo corso della storia. Essa è piuttosto un'alterità radicale, che lo trascende e lo interromperebbe drasticamente. Nulla ci autorizza a pensare che una simile integrale forza messianica possa appartenere a un movimento storico, o addirittura incarnarsi in un «capo» politico; piuttosto è vero il contrario, essa non può mai identificarsi con una figura profana di potere e di comando. Quando ciò iene creduto possibile, ci troviamo di fronte a una caricatura demoniaca del messianismo e del suo senso teologico; non solo a una sua semplice «secolarizzazione», ma alla sua irrimediabile deformazione. L'essere messianico è propriamente il non essere della storia, il suo venir meno, non il suo essere compiuto né la sua totalità: «Se si entra nella storia in modo irrevocabile, è un dovere guardarsi dall'illusione che la redenzione abbia luogo sulla scena della storia. Poiché ogni tentativo di portare la redenzione sul piano della storia senza una trasfigurazione dell'idea messianica, porta direttamente nell'abisso» (J. Taubes, Il prezzo del messianesimo, Quodlibet 2000).
Alla storia universale (che richiama l'attualità messianica integrale), «non può corrispondere nulla, finché non sia ricomposta la confusione derivante dalla torre di Babele» (Benjamin). Ma questo potere integrale di ricomposizione, come mostra la IX tesi, non spetta neppure all'angelo della storia, tanto meno a un uomo che si proclami messia. La pretesa di possederlo e di poter esercitare in suo nome la violenza totalitaria, appartiene allo strato più arcaico e demoniaco del mito (come affiora nell'immagine del «Terzo regno» promesso da Hitler ai suoi seguaci o nella riattivazione dell'«anima slava», evocata da Stalin durante il secondo conflitto mondiale). Da questo punto di vista, la migliore espressione di una debole forza messianica è forse il verso di Hölderlin «La mancanza di Dio aiuta». Non è solo un difetto e una privazione (non ho abbastanza forza per compiere definitivamente la storia) ma anche un riconoscimento del limite e della misura (se pensassi di avere una forte forza messianica cercherei di imporre al mondo il suo volto definitivo, credendomi inviato da Dio).
Ciò non significa che la prospettiva messianica non incida per altro verso sulla storia, o che sia necessario riparare nel relativismo o in un anemico decostruzionismo: per cui a noi non resterebbe altro da fare che smontare virtuosamente il pensiero del passato mostrandone le faglie e i vuoti. Benjamin elabora invece una teoria radicale della contingenza e dell'attimo: la potenza messianica, che spetta all'uomo legittimamente, sorge, agisce e si esaurisce nella specificità irriducibile di ogni attimo, e a ogni attimo si afferma in modo incomparabilmente differente. Essa agisce nella caducità del divenire e nella sua irrimediabile parzialità. In questo senso è debole: perché l'uomo non ha il potere di interrompere il divenire nell'attualità integrale del mondo messianico. tuttavia è capace di intervenire nell'accadere storico e nella vita dei singoli. E la forza che in una situazione data apre e scopre il possibile, piuttosto che subirne la necessità o identificarla con il «destino». Essa si mantiene nella modalità del possibile, e dunque anche nella sua molteplicità, labilità e metamorfosi:ogni nuovo attimo richiede una tensione, analoga e insieme inconfondibile, all'apertura del possibile e alla dissoluzione del destino. Il pensiero critico non ha il compito di elaborare sistemi generali della storia (o della rivoluzione): sprofondato nella contingenza dell'attimo, vi coglie la forma e la dimensione del possibile, pronto a ripetere la sua opera in una situazione mutata. Esso richiede in primo luogo la conoscenza «micrologica» delle forze attive e in conflitto dentro di essa: e poi la presenza di spirito,l'azione decisa, la forma definita, capaci di trascenderne la ripetizione e la necessità. La prospettiva messianica è in questo senso affine allo spirito puntuale della rivolta, così come la definisce Furio Jesi in un saggio pubblicato di recente e dedicato all'insurrezione spartachista de1 1919: «Ciò che maggiormente distingue la rivolta della rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo. Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale...e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunghe verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale di per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà o di perennità di cui consiste la storia» (Spartakus. Simbologia della rivolta, Boringhieri 2000).
L'idea stessa della felicità non è rinviata al remoto fine della storia e alla realizzazione dell'assoluto in terra, ma è inestricabilmente connessa alla situazione specifica e irripetibile, in cui ci troviamo a vivere. Certo, essa ci appare piuttosto come l'incompiuto, soffocata dal peso della necessità e della ripetizione di un destino avverso. Ma la felicità è il possibile, che in questa situazione potrebbe liberarsi, che qui ed ora potrebbe rovesciarne il senso: esso è dentro la situazione, almeno nel suo fondo latente, e da nessun'altra parte: «...L'immagine di felicità che custodiamo in noi è del tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha ormai relegati il corso della nostra esistenza. Felicità che potrebbe risvegliare in noi l'invidia c'è solo nell'aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi. In altre parole, nell'idea di felicità risuona ineliminabile l'idea di redenzione» (Benjamin). Felicità è il possibile non compiuto della situazione in cui viviamo, già immediatamente un passato sfuggito, un tempo già perduto: ed è per questo affine ai possibili smarriti delle generazioni che ci hanno preceduto, vibra nella stessa latenza e nella stessa modalità: «Non c'è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un'eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute?». A questo tempo perduto si rivolge l'opera della memoria, che riattualizza e intensifica il possibile dimenticato.
E a conclusione di questa meditazione sulla felicità, che Benjamin introduce il concetto di debole forza messianica, legandola alla profondità della contingenza e dell'attimo. Essa pone una modifica minima e insieme decisiva: perché non riguarda i fatti stessi che sono accaduti, ma l'intensità latente al loro interno e la modalità con cui noi la ricordiamo.
Ho incontrato una donna, avrei potuto amarla e invece ho lasciato che il nostro cammino si dividesse. Perché? Ho subito l'oscuro peso della situazione: una scena primaria, a me destinata, mi inclina a ripetere all'infinito la chiusura e la mancanza e non ho avuto forza di distaccarmene. Il mio ruolo vi è scritto a lettere di bronzo. La debole forza messianica che ho avuto in dote non può semplicemente cancellare né questa situazione, né la mia inclinazione; non può donarmi una libertà incondizionata. Tuttavia, nella memoria, io colgo ora l'apertura possibile in quel momento di chiusura. La chance del possibile si sprigiona della necessità, come la traiettoria di una barca dalle forze del mare e del vento. Ciò che posso fare è porre il timone nell'unico punto preciso, che mi permetta di andare nella mia direzione. Non diverso è l’apprendimento del possibile.
Di quell'ora serale, nel Caffè in cui l'ho incontrata per l’ultima volta, quando una cupa stanchezza mi induceva a tacere, non ricordo più solo il mio volto vuoto riflesso in uno specchio della parete o il fastidio dei passanti che urtavano indifferenti il nostro tavolino; ricordo invece il suo sguardo, che avevo interamente dimenticato, o il riflesso luminoso che il sole appena ricomparso faceva balenare in una pozza recente. Colgo un possibile che esisteva in quella situazione, non meno reale della necessità che la condizionava. Questo ricordo non muta solo il senso e la dislocazione del passato, ma acuisce anche la mia attuale presenza di spirito, la mia disposizione a non più lasciarmi sfuggire il possibile nell'attimo che passa. Certo la debole forza messianica non può «ricomporre l'infranto»: ma può svelare le luci latenti, l'aura dei possibili che circondava l’evento. E se ora sorretto dal suo incanto tardivo, riesco a cogliere, almeno un poco di più, il possibile che mi passa accanto: allora salvo e realizzo qualcosa anche di quell'antico presente. Ciò che appariva destino, era un grembo che si poteva dischiudere.

La memoria storica compie qualcosa di simile sul piano della vita collettiva: «In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria - essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una situazione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica» (Benjamin). Il suo compito non è dunque di tracciare le leggi universali del corso storico, ma di immergersi micrologicamente in questa situazione, delineandone la costellazione di forza, la tendenza a ripetersi come destino, l’apertura possibile. In questa contingenza afferrata può presentarsi l'azione politica tempestiva. La memoria storica, riattualizzando le chances perdute nel passato, acuisce la forza e la penetrazione della presenza di spirito attuale. Al contempo, l'azione politica non è mai la loro semplice ripetizione: ma sguardo che penetra l'irripetibile.
L'immagine dialettica del passato non è arbitraria, prescelta dal mio capriccio presente. È vero che il passato sembra mutare, quando nella memoria risorge il possibile in esso incompiuto: ma questo si trovava effettivamente nella situazione e diviene visibile in una «lettura a contrappelo» dei dati. E un poter-essere insito nella situazione. Il punto di vista presente può influire sulla sua leggibilità, sulla sua forma, ed anche variarne il significato: ma si orienta pur sempre verso un nocciolo preesistente nell'accaduto.
Nella situazione, sperimento in primo luogo la necessità, l'ostacolo roccioso contro cui si frange il mio desiderio. Solo dopo percepisco il possibile, che pure era presente nell'attimo, per così dire in stato di sonno. In apparenza è una conoscenza inutile: quell'attimo è trascorso. Non posso far sì che in esso avvenga altro da quel che è stato. Probabilmente, qualcosa di importante mi sfugge nell'ora presente e ancora dovrò tornare su di esso per cogliere quanto ho mancato. E così ad ogni attimo. Ma quanto più si incrementa la mia memoria del possibile, tanto più cresce la mia presenza di spirito, rispetto alla chance promessa dall'attimo. Raramente è concessa all'uomo la coincidenza tra l'esperienza del possibile e quella del presente. Tuttavia essa non è impossibile. Essa affiora - secondo Benjamin - nell'intensità della festa e dell'ebbrezza erotica. Ma anche nell'inizio di una rivoluzione, quando ogni esistente sembra aprirsi alla metamorfosi. Forse però anche queste esperienze non sarebbero pensabili, se la memoria non avesse complesso in me le chances perdute del passato, fino a rendermi intollerabile il dominio della necessità.
Era davvero possibile che io parlassi a quella donna, che invece ho lasciato andar via in silenzio: non sono io ora, dall'alto del presente, a calare nell'oscurità dell'attimo passato l'immagine di una felicità, che non è stata. Essa era la potenza inespressa di quella situazione, ma davvero già in essa. L'affinità col presente mi permette di riconoscere il possibile nel passato, non già di crearlo. Esso ha i suoi documenti, le sue testimonianze, i suoi monumenti, le sue lingue morte da decifrare: esiste una filologia del possibile, che ha le sue leggi non meno rigorose ed esigenti di quella che studia il «reale». Di questa scienza del poter-essere, Proust e Benjamin ci hanno dato i primi lineamenti.