Recensioni / Miles, che con la tromba addomesticò la rivoluzione

Miles tornò a trovarla in Rue d'Alésia, la strada del 14esimo arrondissement dove le acacie facevano le sentinelle per l'appuntamento. Era l'estate del ’91, lui sarebbe morto il 28 settembre (e questo 2021 sarà l'anno della rilettura dell'opera del genio, fra riedizioni di dischi e libri). A casa di Juliette, quel pomeriggio, fiorirono i ricordi di un amore inevitabile, scoppiato nel ’49 quando Davis, non ancora famoso, era a Parigi per il Festival Internazionale del jazz alla Salle Pleiel. Dall'Italia era arrivato Armando Trovajoli. Entrò questa magnetica brunetta, Miles ne restò ipnotizzato. La musa degli esistenzialisti e l'incendiario trombettista che metteva a soqquadro le stanze dell'isterico be-bop per trasformarlo nel sensuale, elegante cool jazz. La Gréco e Davis, divisi solo dal colore della pelle. A loro non importava, agli altri sì. Li guardavano male durante le passeggiate sul Lungosenna, li giudicavano perché lui aveva già una compagna e un figlio. Nel 54 Miles invitò Juliette a New York per una cena romantica al Waldorf Astoria. I camerieri li umiliarono tirando i piatti sul tavolo. Miles decise di salvarla. "Non tornare più: nessuno deve considerarti la puttana del negro!". A Parigi erano stati presentati dalla moglie di Boris Vian, frequentavano Picasso. Sartre aveva chiesto a Davis perché non sposasse Juliette. Miles rispose: "Non voglio renderla infelice". Si lasciarono, infilandosi in tre matrimoni a testa (lei, tra gli altri, con Michel Piccoli), ma restarono in sintonia per la vita. Dovunque suonasse, Miles le scriveva biglietti: "Eri anche qui, stasera". In Rue D'Alésia rievocarono tutto, con tenerezza. Finché Miles vide Juliette alzarsi e le rise dietro: "Potrei andare in ogni angolo del mondo, ma ogni volta che vedrò questo culo saprò che sei tu!". La Gréco gli aveva fatto sentire che si potevano amare le persone, oltre alla musica. La seconda moglie di Miles, Betty Mabry, era una cantante funk e soul che era stata legata a un altro trombettista, Hugh Masekela, e frequentava gli dei del black rock, Jimi Hendrix e Sly Stone. Era la fine dei ’60, Davis era nauseato dal radicalismo free jazz di Ornette Coleman o Archie Shepp, che coniugavano improvvisazione, libertà espressiva e istanze rivoluzionarie dei neri. Miles amava invece esplorare le strutture compositive, senza muoversi a caso. Detestava il free e i critici bianchi che lo osannavano: per lui era un trucco per portare il jazz in un vicolo cieco. Così, dopo il cool e il filone "modale", era il tempo di trovare l'incrocio con quel rock spaziale. Betty gli presentò Hendrix: Miles ne era geloso, maltrattava la donna. Ma si annusò con Jimi in jam session sperimentali, e scoprì che il prodigioso chitarrista non sapeva leggere gli spartiti. Malgrado ciò, si accordarono per registrare un album: Hendrix mandò un telegramma a Paul McCartney proponendogli di suonare il basso nel disco. Che non fu mai inciso, perché Davis pretese 50 mila dollari prima di iniziare, e altrettanto chiedeva il batterista Tony Williams. Non fu la sola occasione persa: al Festival di Wight 70 Miles e Jimi decisero di vedersi a Londra per discutere un nuovo accordo. Davis arrivò tardi per il traffico, Hendrix era ripartito. Stabilirono di ritrovarsi a New York, Jimi aveva già il biglietto ma morì il giorno prima. Però intanto, complice la mediazione di Betty, era nata la fusion, dischi di incommensurabile bellezza (In a silent way, Bitches brew) che definirono la svolta elettrica del jazz. Mezzo secolo dopo e a 30 anni dalla morte di Davis, non si spegne l'eco della tromba che ripudiava gli sterili virtuosismi per cercare la "nota perfetta". Tra i libri da sfogliare Miles Davis, il quintetto perduto e altre rivoluzioni: Bob Gluck vi tracciala storia del formidabile Lost Quintet (con Wayne Shorter, Chick Corea, Jack DeJohnette e Dave Holland) che non si ritrovò mai in studio (esistono solo registrazioni live) e analizza le imprese davisiane di fine ’60 con un occhio alla scena free. Quella dei guerrieri jazz senza catene, lontani dal rigore architettonico del colosso Miles.

Recensioni correlate