Recensioni / Il levitatore, di Adrián N. Bravi

Anteo Aldobrandi è l’uomo medio della provincia italiana, divide il suo tempo tra le stranezze della sua famiglia, le discussioni con la sua ex-moglie, la sua amata cagnolina, e la sua levitazione.

È lo stesso Anteo che, nelle primissime pagine del libro, spiega l’origine della sua levitazione. Una ossessione, una caratteristica, un punto di forza… lui levita. E la lentezza prende il sopravvento sulla sua vita, o meglio ancora la leggerezza, uno sguardo dall’alto verso i problemi, verso quelle insicurezze che ogni individuo sa di avere. È nella levitazione, arte affinata negli anni, che Anteo trova la sua libertà, il suo ordine, e la sua accettazione della realtà.

La levitazione è la sua certezza, il suo porto sicuro, fino alla comparsa della questione Ginetta. L’arrivo di un postino e la consegna di una busta colorata bastano a farlo piombare in una realtà diversa, ostile, che lo risucchia e lo tiene a terra. È l’inizio di un controverso dialogo tra leggerezza e pesantezza, leggerezza ricercata e pesantezza della realtà; tra ordine e assurdo, l’ordine della sua vita da levitatore e l’assurdo delle conseguenze che la questione Ginetta portano con sé.

Adrián Bravi, ancora una volta, tesse la trama di un racconto giocato sul filo dell’ossessione, che diventa normalità, dell’imprevedibile e dell’ironia (la cagnolina di Anteo è protagonista di uno degli episodi migliori del libro). All’interno del libro si mescolano la provincia italiana e una soffusa irrealtà che arriva dall’America Latina, il tutto raccontato con un linguaggio pulito, leggero, che ormai non è più solo frutto di una ricerca di ordine dell’autore ma ne è il suo tratto distintivo.

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