Recensioni / La grande eresia di Paolo di Tarso

Il grande successo riscosso dallo sceneggiato sulla vita di San Paolo, recentemente trasmesso dalla Rai, ha riproposto all'attenzione del pubblico televisivo la figura certamente più significativa del processo di fondazione delle comunità cristiane nel mondo, l’apostolo a cui si fa risalire l’affermazione del cosiddetto "cristianesimo storico", colui che dentro le "contraddizioni" dell'ebraismo del suo tempo - priorità della Legge per l’ortodossia ebraica "versus" predicazione "antinomica", che Paolo introduce nella trasmissione del messaggio divino- innescherà quella rottura irreversibile, quel "punto di svolta" che darà vita successivamente alla comunità ecclesiale della cristianità. Anche su un altro versante - quello più propriamente filosofico-teologico -l'attenzione su Paolo di Tarso, sul significato della sua opera, in questi ultimi anni, è cresciuta in modo significativo, traducendosi in un maggiore interesse sia teoretico -basta pensare al magistrale saggio di Giorgio Agamben "Il tempo che resta", su cui ci siamo soffermati recentemente in queste stesse pagine - che editoriale. Su quest’ultimo terreno, merita di essere segnalata la traduzione in lingua italiana di due importanti studi di un grande studioso viennese:Jacob Taubes (Vienna 1923 - Zurigo 1987), già professore di storia e filosofia della religione presso la Columbia University di New York, poi ordinario di giudaistica ed ermeneutica a Berlino. I testi a cui facciamo riferimento sono "La teologia politica di Paolo" (Adelphi, Milano 1997) e, il più recente, "Il prezzo del messianesimo" (Quodlibet, Macerata 2000, Lire 36.000), curato da Elettra Stimilli, con una pregevole postfazione.
Mentre il primo volume ci permette di leggere le fondamentali Lezioni tenute da Taubes, dal 23 a127 febbraio 1987, alla Forschungsstatte della "Comunità di Studi Evangelici” di Heidelberg, il secondo raccoglie i saggi che Taubes ha dedicato nel corso della vita a Gershom Scholem, unanimemente considerato il più grande studioso della mistica ebraica, autore di fondamentali studi sulla 'cabbala', amico intimo e affine per molti anni di Walter Benjamin. Ed è proprio in questo secondo volume che Taubes, ponendo al centro la sua ipotesi ermeneutica del problema del "messianesimo" di Paolo di Tarso, argomenta le ragioni del suo progressivo distacco da Scholem. Il rapporto tra la tradizione e il messianesimo costituisce l'orizzonte all'interno del quale matura il loro scontro storico, facendo emergere il significato pregnante giocato dal Paolo nelle pieghe della tradizione ebraica.
«Forse, non è un paradosso - scrive Taubes - il fatto che Paolo sia stato pronto a definire il punto fondamentale del dissidio tra l’ebraismo e il cristianesimo meglio degli apologisti ebraici moderni. Il punto controverso e la Legge. Tutte le premesse della teologia di Paolo erano 'ebraiche', persino 'farisaiche'; da esse, tuttavia, egli trae conclusioni eretiche: e cioè, dalla premessa ebraica verosimilmente legittima che il Messia annuncerebbe la fine della Legge, egli trae la conclusione eretica del cristianesimo, secondo cui il Messia è già venuto e la Legge è superata: "Cristo infatti è la fine della Legge, chi crede in lui è giusto" (Rm 10,4). Ma il fondamento della religione ebraica, a partire da Esra, è stata la Torah, la Legge, o meglio l’halachah, la'via' della Legge nella vita dell'uomo. Rispetto a questo tutte le speculazioni teologiche sono secondarie».
È vero sì, secondo Taubes, che la vocazione messianica inaugurata da Paolo finisce "nell'eresia", dal momento che egli, annunciando.la fine della Legge, si è scontrato col fondamento stesso della religione ebraica. Ma quella di Paolo, più che una sfida al monoteismo ebraico, è una sfida radicale alla "validità e all'interpretazione della Legge" (Taubes). Anzi, è propria di ogni istanza messianica una tale sfida, «perché essa rivendica il fatto di aver inaugurato un'epoca in cui la Legge è superata» (Taubes). Sicché, la storia cristiana, l'istanza di Gesù di essere chiamato Messia, il cristianesimo, in altri termini, non sono affatto un 'mistero' per l’ebraismo, ma rappresentano «una crisi 'tipica' nella storia ebraica ed esprimono una tipica 'eresia' ebraica: il messianesimo antinomico - la fede che con la venuta del Messia non sia necessario, per la salvezza, osservare la Legge, quanto piuttosto credere in lui» (Taubes). Non dobbiamo pertanto scorgere una forma "nichilistica", in questa "abrogazione della legge'", che Paolo inaugura dentro la tradizione ebraica - come invece sembra fare Scholem -, ma l’apertura di un punto di svolta, un momento di passaggio. Senza che questo si traduca in qualcosa di meramente individuale. L'interesse di Paolo è sempre volto alla comunità e alla storia. Come afferma, con rara efficacia la Stimilli, «dopo Paolo la redenzione non si può più concepire come qualcosa che va atteso, un evento che avverrà in un futuro indefinito; essa è piuttosto l’attimo in cui l’uomo, proprio nel suo essere estraneo al mondo, è presente a se stesso e autenticamente si appropria di sé».
Segnando una assoluta discontinuità tra "storia" e "redenzione" - «non c'è progresso di ordine storico che possa condurre alla redenzione»: un orizzonte, questo, riconosciuto dalla stesso Scholem - , non solo "l'agire" inaugurato dalla predicazione di Paolo (una vera e propria "rivoluzione del pensiero"), ma la stessa "comunità politica", che a partire da Paolo si dovrebbe costituire, è piuttosto "una comunità, per così dire, "inoperosa",che nulla ha a che fare con l’istituzione della chiesa successiva a Paolo, o con l'ebraismo farisaico-rabbinico" (Smimilli), che appaiono così essersi costituiti sulla base di un 'fraintendimento' del senso dell'insegnamento di Paolo e del senso del 'messianesimo' che egli stesso introduce. Temi, questi, che ci rimandano alla lettura delle suggestive pagine di Taubes.