Recensioni / Miles Davis e la curiosa parabola del Quintetto Perduto

A partire dall'estate del '68, attraverso una serie di avvicendamenti, il quintetto di Miles Davis si riconfigura, e, sempre con Wayne Shorter come sax, nel marzo del '69 è ormai completamente rinnovato nella ritmica, con Chick Corea al piano, Dave Holland al basso e Jack DeJohnette alla batteria: è il cosiddetto «quintetto perduto» di Miles Davis. Un anno dopo Shorter viene rimpiazzato da Steve Grossman, mentre la formazione si allarga con l'ingresso del percussionista Airto Moreira e poi con l'aggiunta di un secondo tastierista, Keith Jarrett: sestetto e settetto pure «perduti», perché così come il quintetto di cui erano un'espansione non entrarono mai in studio di incisione, e sono stati documentati solo live.
Nel frattempo con organici diversi Davis incide In a Silent Way, Bitches Brew e A Tribute to Jack Johnson. La parabola del quin/ses/set-tetto «perduto» si esaurisce nell'estate del '70: Davis comincia poi a modificare la formazione e sterza prendendo una (visionaria) direzione fun ky. Una serrata disamina della musica del gruppo di Davis a cavallo fra '68 e '70 è il fulcro intorno al quale ruota il saggio di Bob Gluck Miles Davis, íl Quintetto Perduto e altre rivoluzioni (Quodlibet, collana Chorus, pp. 330, 25 euro): se - complice anche una superficiale etichetta come jazz-rock - il Miles Davis della svolta elettrica è stato corrente mente visto come un caso a parte rispetto alla coeva avanguardia di area free, lo studioso americano provvede invece a sottrarlo con decisione a questo suo - per quanto splendido - isolamento.
Nell'ultimo scorcio degli anni sessanta la sperimentazione con la strumentazione elettronica si combina nel gruppo di Davis con l'utilizzo di forme aperte e astratte e con una grande componente di improvvisazione libera: per Gluck lo stesso gruppo di impronta funky del '74-75 non rappresenta un'involuzione, perché «l'interazione delle diverse voci può essere intesa (...) come una diversa 'variante' dell'improvvisazione aperta».
L'analisi della maturazione del lavoro del quintetto/settetto è di per sé appassionante, ma Gluck- con un originale approccio trasversale e un bell'affresco dell'avanguardia dell'epoca - srotola poi il filo che collega il gruppo di Davis con altre emblematiche esperienze: Corea e Holland formano il quartetto Circle con Anthony Braxton, proveniente dallo stesso ambiente di musicisti creativi di Chicago da cui è uscito il batterista di Davis, DeJohnette; e il violinista Leroy Jenkins, anche lui chicagoano, e collaboratore di Braxton, è uno dei tre membri del Revolutionary Ensemble.
Il gruppo di Davis ha un leader - e che leader! - che però è un «direttore che non dirige», che lascia amplissimo spazio all'iniziativa dei suoi musicisti; Circle è una impresa collettiva, con cui Corea e Holland vogliono portare ancora più avanti la libertà a cui hanno preso gusto con Davis; e nel Revolutionary Ensemble l'autonomia individuale è ancora più accentuata. Ma in tutti e tre i casi l'improvvisazione ha un ruolo essenziale, e le specificità di queste esperienze, che vengono illustrate puntualmente, non possono oscurare per Gluck la loro sa stanziale analogia estetica.
Morale: la vera differenza, ci dice Gluck, era solo economica, nei rispettivi status all'interno del mercato del jazz. Nel quale Davis poteva contare sul prestigio conquistato in stagioni precedenti per permettersi di fare una musica estremamente avanzata: ma non è un caso, spiega Gluck, se quel gruppo di Davis non fu mai portato dalla Columbia in studio di incisione, guadagnandosi così il nome di quintetto perduto.

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