Vita minima
Di tutte le considerazioni fatte a ridosso dell'epidemia dí Covid-19,
alcune lasciano un segno più marcato e non smettono di esercitare, oltre a un indubbio fascino intellettuale, un effetto conturbante. Per me, come penso anche per moltissimi altri, hanno avuto
senz'altro questa forza gli interventi di Giorgio Agamben pubblicati sul sito della casa editrice Quodlibet tra febbraio e maggio.
Le risposte politiche e scientifiche all'emergenza sanitaria hanno
contribuito a far precipitare, radicalizzandone alcuni tratti, le tesi
di Agamben sull'esito attuale della biopolitica e sul suo intreccio
con lo stato d'eccezione. Non è di questo, naturalmente, che vorrei discutere nel mio breve contributo, dove cerco invece di prendermi cura di una parola diversa. Mi limito a un rapido richiamo,
necessario come premessa per le osservazioni che proporrò.
Nel rilanciare in modo drammatico e un po' perentorio concetti e argomenti già ampiamente sviluppati ín diversi luoghi della
sua opera, quelle brevi, acuminate sentenze, quelle domande fortemente provocatorie del filosofo continuano a sollecitare non solo
una risposta, ma un supplemento di riflessione su questioni decisive, che ruotano tutte intorno al senso della nozione di "vita". Secondo Agamben, le restrizioni della libertà personale hanno configurato una violazione di tutti i fondamenti giuridici di una democrazia; ammesso che siano state imposte in nome di un bene
al di sopra di tutti gli altri — la vita, appunto — nondimeno erano
inaccettabili, perché un bene come la vita non può essere "salvato"
a prezzo della sottrazione di un bene altrettanto importante, forse persino più importante, qual è la libertà. D'altra parte, la vita
protetta quasi a tutti i costi non è che la "nuda vita", ridotta alla
sua espressione biologica; la zoé, in nome della quale il bios, ovvero la vita relazionale e politica, è invece stata sospesa. In questo
scambio scandaloso, ciò che colpisce è la facilità, la condiscendenza, con cui i cittadini hanno obbedito alle autorità statali. Come è
stato possibile? "Questo è potuto avvenire [...] perché abbiamo
scisso l'unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità puramente
biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall'altra."
Saremmo tutti coinvolti dunque nella responsabilità di aver ridotto, ben prima dell'emergenza sanitaria, la vita umana a nuda
vita, a mera sopravvivenza biologica. "E che cosa è una società che
non ha altro valore che la sopravvivenza?"
Ecco la parola sgradevole, che un po' disturba, come se si portasse dietro un'ombra grigia, e lasciasse percepire un sentore di
chiuso — lo spazio chiuso delle nostre case dove ci siamo rassegnati
a rimanere. Come possiamo limitarci a desiderare la mera sopravvivenza? E cosa ne ricaviamo? Ci saremmo lasciati condizionare
dalla paura della morte, il massimo potere di asservimento; ma è
una vita da servi quella che abbiamo ottenuto di salvare.
Potevamo fare altrimenti? Viene in mente il "vel alienante" di
cui parlava Lacan: l'obbligo di scegliere tra la vita e la libertà ci presenta una falsa alternativa, il cui esito è ín ogni caso una privazione.
Come è implicito nell'intimazione "O la borsa o la vita! ", dove, se
si preferisce la vita, si perderà la "borsa" — senza la quale la vita potrebbe essere molto difficile e povera; ma, se si trattiene la borsa, si
perderà la vita, senza la quale tutti i beni simboleggiati dalla borsa
diventeranno vani. Va da sé che siamo costretti a scegliere la vita.
Se l'alternativa fosse un po' diversa, come nello slogan rivoluzionario "Libertà o morte!", si otterrebbe invece sicuramente la morte.
Sono situazioni estreme, dove pare non ci sia in realtà alternativa
alcuna. È anche vero però che, in circostanze certo non meno rischiose delle presenti — il caso esemplare è quello di una dittatura —, molti sono stati disposti a farsi uccidere pur di combattere per
la libertà. Hanno scelto la morte, in effetti, contro la nuda vita? Con questa svalutazione alta, eroica, della sopravvivenza converge in questo momento, in modo piuttosto paradossale, un discorso meno nobile e poco filosofico, ma sempre più insistente, e
capace di una certa presa. Si tratta di una declinazione particolare
di quello che potremmo chiamare il "discorso della ripresa". La
pressione fortissima del mondo economico, sostenuto dal pensiero
ultraliberale, cui a loro volta si uniscono le voci meno raccomandabili di alcuni movimenti di destra estrema, porta per vie diverse
un attacco altrettanto deciso contro il rischio che i singoli individui e la società nel suo complesso si accontentino della mera sopravvivenza. Voci eterogenee si ribellano con varie intensità a istituzioni troppo caute, troppo preoccupate di prendersi cura solo
della salute collettiva.
L'allarme non è nuovo, e non riguarda esclusivamente l'Italia.
Già negli anni ottanta si denunciava, nella società americana, il dilagare di una "mentalità della sopravvivenza" le cui manifestazioni
si potevano riconoscere, secondo Christopher Lasch, in una serie
di fenomeni disparati, dalle teorie del femminismo radicale ai movimenti ambientalisti, accomunati dal vittimismo e dalla pretesa
di essere protetti. Oggi, di fronte alla materializzazione del pericolo rappresentata dalla pandemia, prevale ovunque, sugli inviti
alla cautela e alla pazienza, il messaggio che dobbiamo convivere
con il virus, per non essere travolti da un tracollo economico ben
peggiore della crisi sanitaria. Non solo. Si ammoniscono spesso
le collettività a non cercare di tornare alla routine precedente, riprendendo semplicemente a vivere: sia perché si è perso del tempo
prezioso ed è necessario recuperarlo, sia perché la crisi deve essere
occasione per innovare, ovvero per inaugurare una ulteriore fase
dí crescita. Perché è così che si intende per lo più il cambiamento
necessario, più raramente come occasione per mettere in discussione il dogma della crescita.
Non c'è dubbio che la questione decisiva sia quella del modello economico che si continua a considerare irrinunciabile e ineluttabile. La spinta all'innovazione a ogni costo, a prescindere dalla
reale esigenza di un cambiamento, non mi pare però spiegabile
solo in termini economici. Se prendiamo per esempio la scuola,
è singolare come i media siano passati dal riconoscimento di una
sua complessiva capacità di reazione, riconoscimento lievemente
incredulo e concesso a denti stretti,, all'attuale riprovazione verso
le scuole, "le prime a chiudere, le ultime ad aprire", come si ripete
tutti i giorni. Alla scuola si imputa un sostanziale fallimento, perché in fondo, si sostiene, essa avrebbe tutt'al più continuato a proporre, con i mezzi della didattica a distanza, i medesimi contenuti
e stili tipici del "vecchio" insegnamento in presenza. Il fallimento sarebbe dunque legato all'incapacità di sfruttare la situazione
per trasformarsi in profondità. Essere riusciti, con sforzi notevoli,
a tenere in vita le funzioni essenziali dell'istituzione scolastica evidentemente non è bastato.
Come è possibile un simile capovolgimento del giudizio nel
giro di qualche mese? Il motivo più scoperto, non si può negarlo,
è il discredito che pesa da decenni sulla scuola italiana, e che nessuna "buona pratica" è riuscita finora a scalfire. Eppure non c'è
solo questo. L'accusa è più sottile. Come nel caso dell'economia, la
scuola sconta il suo essersi limitata a evitare che si spezzasse una
continuità, a resistere, in altre parole a sopravvivere.
Trionfo della vita?
In questa prima accezione, la parola sopravvivenza nomina dunque una forma di vita minima, debole e poco attraente, bloccata nell'ossessione dell'autodifesa e incapace di lottare in nome di
qualcosa di più alto e universale. Incapace di sacrificarsi. Non sarebbe tanto la difesa in sé stessa a costituirne il tratto spiacevole,
quanto quel ripiegamento della difesa sulla soggettività che si sente in pericolo e si identifica volentieri con la vittima. Nella mentalità della sopravvivenza, Lasch coglieva perciò, nonostante lo spostamento d'accento, una prossimità con il narcisismo.
Se ci concentrassimo esclusivamente sulle sue manifestazioni
reattive, tipiche delle masse dominate dalla paura, della mentalità della sopravvivenza perderemmo dí vista un'espressione altrettanto caratteristica per quanto meno comune, riconoscibile nelle
visioni apocalittiche dei "profeti della fine del mondo", che si preparano ad affrontare eroicamente la catastrofe per trasformarla in
un nuovo inizio per l'umanità superiore. I sopravvissuti sarebbero in questo caso non i perdenti, fragili e vili, ma proprio i migliori, quelli che hanno saputo programmare la propria esistenza
sottoponendosi a duri esercizi fisici e spirituali. I sopravvissuti si
presentano qui come i vincitori. Basta solo un passo per transitare da questa rappresentazione a quella, ben più fosca, evocata in
Massa e potere da Elias Canetti, anche se non è un passo facile da
compiere.
Il sentimento di potenza che pervade il sopravvissuto nasce infatti, per Canetti, dalla consapevolezza di essere vivo mentre gli
altri sono morti. Sullo sfondo delle guerre e delle violenze passate e presenti, si staglia una figura sinistra, incarnazione della pura
affermazione della vita propria ottenuta al prezzo della morte altrui. Il modo più semplice e primitivo per assaporarne il gusto è
l'uccisione. Qui, a giudizio dell'autore, si radica il potere: qui sta il
motivo per cui l'essenza del potere si trovava, alle origini, nel diritto di vita e di morte. Tra le molteplici forme della sopravvivenza
ne spicca una, in cui l'immagine della guerra si fonde con quella
dell'epidemia:
Il "generale" vince. Ma poiché anche molti dei suoi sono caduti, il mucchio dei morti è misto, è composto di amici e nemici;
l'immagine della battaglia conduce a quella "neutrale" dell'epidemia. L'uccidere confina qui col morire, e precisamente con
le accezioni più imponenti e orride del morire: le epidemie, le
catastrofi naturali. Si sopravvive, così, a tutti coloro che sono
mortali: amici e nemici insieme. Appaiono particolarmente significative le vicende [...] di uomini tornati in vita fra i cadaveri, in mezzo a mucchi di morti [...]. Tali persone sono portate a considerarsi invulnerabili: per così dire, eroi della peste.
Tale sarebbe la logica feroce della sopravvivenza. Se consideriamo le due strategie adottate nel mondo per fronteggiare la pandemia — la chiusura d'autorità volta a proteggere la vita, soprattutto dei più deboli, e il mantenimento della vita consueta in vista
dell'immunità di gregge — ci colpisce una doppia analogia. La
prima si avvicina alla mentalità della sopravvivenza, che vorrebbe
difendere, far vivere tutti; la seconda fa pensare ancora a una politica della sopravvivenza, ma solo per alcuni, non importa in qual
numero, e comunque ottenuta al prezzo della morte di molti altri.
Certo non è l'immunità di gregge che Agamben aveva in mente.
Semmai quest'ultima dovrebbe apparirgli come un rovesciamento
paradossale dello stesso principio che governa le decisioni di restringere la libertà per proteggere la vita. Per trovare un rapporto
tra le sue tesi e quelle dei fautori dell'immunità collettiva si dovrebbe pensare che l'idea di lasciar fare al virus sia sorretta dalla
volontà di salvare, insieme alla vita biologica, la civiltà e la storia
che hanno distillato le libertà individuali conservando attitudini
umane antichissime. Tra queste c'è il rispetto per i corpi dei morti. Ma come non vedere, in questo rispetto, una delle forme più
caratteristiche della sopravvivenza?
Vita impura
È ovviamente nel cristianesimo che il gioco tra morte e vita si risolve nella promessa di una vita che attraversa la morte e la sconfigge, non per conservarsi uguale a sé stessa, ma per salvarsi e trasfigurarsi in una forma gloriosa. La sopravvivenza si identifica qui
con l'immortalità. Lontano da una prospettiva religiosa, l'immortalità sarebbe, scrive ancora Canettí, la via d'uscita dalla ferocia e
dalla meschinità della mera sopravvivenza: colui che crede all'immortalità della propria opera può superare l'attaccamento angoscioso alla propria vita, lasciandosi alle spalle l'attitudine violenta
del sopravvissuto. Ma allora è come se, pur cercando di concepire la vita su un piano di perfetta immanenza, si tornasse poi a
ridisegnarvi il movimento con cui ciò che è inferiore è chiamato a
sacrificarsi in nome del più alto. Nel lessico di Agamben, la nuda
vita in nome della vita veramente umana, cioè della vita politica.
Se la semantica della sopravvivenza si esaurisse nell'oscillazione
tra il significato di una vita mortificata e perdente e quello, opposto solo in superficie, di una vita trionfante, l'impulso filosofico a
vivere e pensare la vita secondo un concetto più alto sarebbe forse
giustificato. Non è detto tuttavia che quell'oscillazione dica tutto.
Come abbiamo visto, il discredito che pesa sul lessico della sopravvivenza nasce dal tipo dí rapporto tra la vita e la morte che la
parola evoca senza potersene liberare. Tanto chi si limita a "vivacchiare" sperando di cavarsela, quanto chi lotta a viso aperto per
rimanere in vita, vivrebbe cercando di evitare la morte, restando
tuttavia sotto il suo giogo. Vivere, è sottinteso, vorrebbe dire invece accettare la morte, sfidarla se necessario, ma senza permettere
al pensiero della morte di intristire o impoverire la vita togliendole
potenza. E quanto dice Spinoza: "L'uomo libero non pensa a niente meno che alla morte; e la sua sapienza è meditazione non della
morte ma della vita". Non ci si può sottrarre al fascino che promana da una simile enunciazione e dal progetto di ascesi nell'immanenza che ci lascia immaginare. Ma è davvero questo l'unico
farmaco per curare la condizione dei mortali? Ed è davvero compito della filosofia trovarlo? Se l'intrico tra vita e morte fosse al
contrario proprio la questione fondamentale della filosofia; se il
problema non fosse affatto quello di padroneggiare la morte?
Ci vorrebbe una certa dose di umiltà per volgere un altro sguardo alla nostra condizione, e accettare che non possiamo non prenderci cura della sopravvivenza. È questo l'essenziale della risposta
che ad Agamben ha dato Jean-Luc Nancy. Nel primo intervento
sull'argomento, che pare scritto d'impulso, sotto l'influenza della
sorpresa per le osservazioni dell'amico, egli evoca un ricordo personale: "Quasi trent'anni fa, i medici hanno giudicato che dovessi sottopormi a un trapianto di cuore. Giorgio fu una delle poche
persone che mi consigliò di non ascoltarli. Se avessi seguito il suo
consiglio probabilmente sarei morto ben presto. Fortunatamente
non lo ascoltai".
Essere ancora qui, fosse pure per un tempo brevissimo, un attimo; essere vivi, sebbene attraversati dalla morte, in modo tale
che la morte e la vita risultino indissociabili. Questo risuona nella parola sopravvivenza. Non c'è dubbio che il pensiero di Nancy
sia in sintonia con le ultime parole di Derrída agli amici: "Preferite sempre la vita e affermate senza posa la sopravvivenza". Parole che, come osserva Francesco Vitale, non vanno confinate alla
circostanza della morte imminente, perché rappresentano anzi il
suggello di un complesso lavoro teorico sulla questione della vita,
culminato nel seminario del 1975-76, La vie la mort.
Tutt'altro che marginale all'interno del percorso filosofico derridiano, il tema della vita compare infatti assai precocemente nei
suoi scritti, in stretta connessione con le più note nozioni di traccia e différance, al punto che la nozione di una vita sempre alterata
rispetto a una presunta identità con sé stessa, sempre contagiata
dalla morte, sempre "impura", può essere vista come la matrice
della decostruzione. All'incrocio tra filosofia e biologia compare
la categoria di autoimmunità, che Derrida incomincia a utilizzare
negli anni novanta in un'accezione in cui si tengono insieme più
significati. L'autoimmunità è la parola con cui Derrida ha cercato di pensare il rivolgersi della ragione, del soggetto, infine della
vita, contro le proprie difese, per rendere possibile l'accoglimento
di un'alterità di volta in volta diversa, ma pur sempre imparentata con la morte. Un'alterità che rischia certo di annientarla, ma da
cui può d'altra parte sorgere un possibile rinnovamento. Una nuova vita, una vita altra, ín cui la vita sopravvive dunque al prezzo di
farsi "contagiare" dalla distruzione.
È legittimo domandarsi a questo punto se questa idea della
vita sia davvero estranea a quella che si trova non solo negli interventi sull'epidemia, ma in molta parte dell'opera di Agamben. La
distanza esiste, ma potrebbe non essere incolmabile. Da un lato
infatti Agamben non ha certo in mente una vita sovrana, anzi ne
sottolinea la finitezza e la vulnerabilità, da cui nasce la necessità di
"aspettarsi la morte"; dall'altro Derrida non elogia certo una vita
chiusa sulla mera autodifesa. C'è però una differenza su cui vorrei qui attirare l'attenzione, nonostante possa apparire trascurabile. Essa sta tutta nel destino della parola sopravvivenza. Tenuta a
distanza dal primo, questa parola è scelta da Derrída, e "salvata"
fino all'ultimo dei suoi giorni, come la più vicina all'esperienza di
un'affermazione, di un "sì" alla vita che scaturisce dalla sua stessa
parentela con la morte. La nostra esperienza della vita è paragonabile alla sospensione di una decisione, se si vuole di una condanna: un rinvio della morte, alla quale siamo "inviati" nel momento
stesso della nostra nascita. "Sopra-vivere" nomina tanto il fatto che
si viva "ancora", pur se per poco, pur se in una estrema prossimità alla morte, quanto un effetto di intensificazione della vita, una
"vita più della vita", cui può accompagnarsi persino un sentimento di "gaiezza". Da un lato la vita è dunque sempre in un certo
senso malata, divisa da sé stessa, indebolita dalla spettralità che la
abita, incompíuta, mai totalizzabile nel raccoglimento di un'identità, mai pienamente presente; dall'altro, proprio grazie al suo essere attraversata dal passato, essa si apre all'avvenire.
Non solo: mantenendo la parola sopravvivenza come nome della vita, Derrida mantiene la continuità tra vita biologica, animale e
vita politica, a costo, si potrebbe dire, di conservare una certa indistinzione tra piani che ci aspetteremmo venissero tenuti separati.
Se è vero che i viventi si rinnovano distruggendo le loro difese, quindi esponendosi alla morte, nello stesso tempo qualcosa in
loro desidera rimanere in vita: senza un tale desiderio, senza sospensione della distruzione, non ci sarebbe vita affatto. Perciò mi
pare che questo uso del termine sia in grado di invitarci a una certa cautela quando si tratta di giudicare se una vita sia ancora degna del suo nome, e quindi se "valga la pena" cercare di salvarla.
In un senso analogo, benché non identico, la sopravvivenza di una
cultura, persino di una civiltà, è inseparabile da un gesto con cui
qualcosa è trattenuto dal movimento sempre più rapido che spinge verso il futuro.