È come se in una immagine che
abbiamo avuto sempre sotto gli
occhi cominciassero ad apparire delle tessere luminose che fino a poco prima si confondevano nell'insieme. Anzi, da quell'insieme venivano
fagocitate in virtù di una interpretazione che aveva dimenticato la cosa
più importante: l'immagine non può
essere sostituita dalle parole, tanto più
nella sfera così difficile da separare che
siamo soliti chiamare "contenuto":
l'immagine è il suo stesso contenuto,
è performante. E di questo si fa carico
lo storico e teorico dell'arte Giovanni
Careri, docente a Parigi e allo Iuav di Venezia, con il suo ultimo libro dedicato
a Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina. Con all'attivo importanti saggi sul
barocco, osservato tenendo i piedi nello spazio dell'immagine ma anche in
quello letterario e critico, il libro più recente di Careri era la monografia Caravaggio. La fabbrica dello spettatore
(Jaca Book, 2019). Careri è uno studioso che cerca di decostruire nel significato e nell'interpretazione i fenomeni
artistici considerandoli alla stregua di
opere dinamiche, cinetiche, cinematiche. Usa l'iconologia warburghiana e la
semiotica, e nel suo ultimo saggio mette in gioco la tecnica del "montaggio"
(quasi in senso drammaturgico e cinematografico) - come già in uno studio
sulle cappelle barocche di Bernini di
trent'anni fa. La pars destruens e la par
construens con cui si presenta all'appuntamento toccano un grande "oggetto storico" che può essere anche,
per dirla con Hubert Damisch evocato da Careri, "oggetto teorico": più che
di metodologia strumentale si sta parlando di una vera e propria méthode,
cioè un procedere che diventa a sua
volta performativo, o, come avrebbe
detto Heidegger, "pensiero pensante".
E a che cosa applica Careri le sue arti
d'indagatore degli anfratti iconografici? Le applica allo studio "innovativo"
del programma iconografico elaborato nel cuore della Roma papale che
sentiva il vento della Riforma alitarle
sul collo.
Appena uscito da Quodlibet, questo
saggio segna il passo e ci offre una
quantità di spunti di riflessione su come nell'arco di trent'anni Michelangelo abbia testimoniato e modulato la
percezione e l'idea che i cristiani avevano degli ebrei nella storia della salvezza. Siamo di fronte a uno studio
talmente denso, eppure nella sua densità estremamente lineare, alla portata del lettore non specialistico (ma certo un po' aggiornato sulle questioni),
che non si può certo riassumerlo in
poche righe, anche perché affronta
tanti singoli momenti degli affreschi
michelangioleschi che solo elencarli
tutti non basterebbe lo spazio a disposizione. Ma si può dire qual è il focus sul quale Careri insiste e torna in
una infinità di cerchi concentrici: il tema ricorrente e fondamentale è quello degli Antenati, «per sottrarre le loro figure ai loro nomi, che avevano
neutralizzato la straordinaria incongruità delle loro posture».
Gli Antenati sono gli ebrei e i cristiani
sono quelli che s'innestano su quell'albero e dopo aver riconosciuto il
Messia vedono i fratelli d'origine come
coloro che vivono fermi nella terra di
Adamo. Pertanto li immaginano come
dediti ad attività quotidiane, esseri
"carnali", prostrati e lenti, a differenza
del tono eroico che segna invece la vòlta e gli affreschi eseguiti nel Quattrocento dai pittori coordinati dal Perugino. Il tono è appunto quello di chi ha
portato a compimento una sostituzione dove, scrive Careri, il passato ebraico nella storia della salvezza è inteso
come praeparatio e praefiguratio. Lattanzio diceva del popolo ebraico: figuram nostrani portat. Opportunamente, Careri sottolinea che «considerare la
stessa storia degli ebrei come un annuncio della storia cristiana è una forma di appropriazione, una presa di
possesso, della quale soltanto la prospettiva antropologica moderna è in
grado di rivelare pienamente la violenza». Ma l'iconografia degli Antenati è pensata come qualcosa di "basso",
umile e ordinario, che li esclude da
questa appropriazione, ma in questo
modo salva anche visivamente la loro
"alterità".
Questa immagine degli Antenati, proprio per la differenza estetica rispetto
alle figure della vòlta, esclude che possano diventare emblemi cristiani, anzi nella apologetica rappresentano
l'immagine di quelli che, vissuti nel
tempo nuovo dell'Incarnazione senza convertirvisi, «si ostinano invano
nella loro fede obsoleta» e quindi non
prefigurano nulla. Ma in realtà, come
dimostra con la sua incursione iconologica e storica Careri- «questi uomini vecchi e stanchi e queste donne
che allattano, accanto ai corpi pieni
di energia dei profeti e delle sibille sulla vòlta e vicino alle figure possenti degli angeli e degli eletti del Giudizio» -, hanno un rapporto con l'ordine
"sparso" che sembra manifestarsi nella parete affrescata da Michelangelo
nel 1541 per rappresentare la fine dei
tempi, proprio nella dimensione non
aulica e più soggettiva, tipica di una
modernità in fieri.
Secondo Careri, esiste un fil rouge fra
quelle "inerti famiglie" del passato ebraico e il movimento messianico che
si compie nel Giudizio. Se gli Antenati furono una delle fonti dell'antigiudaismo nella Roma di Giulio II, nondimeno la loro apparenza talvolta melanconica, la dimensione quotidiana,
dedita alle cose comuni, come allattare un figlio, può risultare coerente
con quella "carnalità" (Péguy avrebbe detto "terrosità") che è segno di umanità da riscattare e che viene investita da una diversa antropologia fondata sulle lettere paoline; la stessa che
si riscontra poi nella Sistina per la corrispondenza con il dettato salvifico
della somiglianza al modello che trasfigura chi si "conforma" al Cristo «primizia di coloro che sono morti». Il suo
volto e il suo aspetto folgorante che si
ripresenta alla fine dei tempi non è
più quello del semita Gesù, con la barba e i capelli lunghi, ma l'Apollo della
bellezza divina.
Tuttavia è proprio negli spazi consentiti dal "montaggio" che Careri recupera le prossimità e anche i rimandi "stratificati" sotto l'intera iconografia sistina. Per il suo "disordine" rispetto ai tra
dizionali banchi del teatro dove «martiri, patriarchi, santi, dottori della Chiesa, papi e vescovi e a volte in posizione più o meno eminente, re e funzionati politici» trovavano posto secondo
il loro rango fino alla fine del Quattrocento, Michelangelo venne accusato
fortemente di mancanza di decoro. Una polemica che oggi appare spuntata, ovviamente. Egli pensa il Giudizio
tenendo conto di ciò che lo precede e
di quello che lui stesso ha realizzato
trent'anni prima dando a ogni figura
un senso preciso; attorno al Cristo glorioso ora dispone gruppi di figure, angeli e eletti, peccatori e dannati, ma tutti, in positivo oppure in negativo, si definiscono in conformità al modello, il
fulcro della storia che torna dal cono abissale e splendente che gli fa da mandorla luminosa (una forma che viene
dalla tradizione medioevale).
Careri dedica tutta la prima parte del
suo saggio a illustrare il Cristo-Apollo
che Michelangelo dipinge: bello, glabro, col braccio destro alzato a sancire
la condanna, ma quello sinistro piegato che sembra anche suggerire clemenza (terribilità vasariana contro sistema aperto proposto da Condivi, che
scrisse sotto il controllo di Michelangelo). Quel Cristo dall'anatomia classica, con la madre accanto che pare
quasi proteggersi da quella immensa energia, è il modello di una "conformazione" che in Paolo significa la trasfigurazione in una nuova imago, a cui i
cristiani devono rendersi simili nell'aspetto, indossando quell'immagine come il nuovo abito che li rende partecipi del suo corpo glorioso. Se la Sistina
è «una grande fabbrica della storia cristiana», il Giudizio è l'immagine che
attesta una «euristica del montaggio»,
cioè un nuovo modo di esprimere ciò
che fino a quel momento aveva seguito «i principi dell'istoria esposti da
Leon Battista Alberti», senza accorgersi poi che già il vento riformatore stava soffiando sulla cristianità.
Il Giudizio supera il modello ben ordinato dell'istoria e dà forma a «una costellazione di azioni colte nell'atto di
svolgersi, aperte e incompiute, e un'estrema contrazione dello spazio costruito per stratificazione densa; forme capaci di visualizzare la condizione dell'imminenza della fine del tempo». E Careri sottolinea la doppia implosione storica che il Giudizio produce rispetto sia al ciclo delle storie quattrocentesche e della volta: quella del
modello albertiano per l'arte; sia nella
lettura della stessa storia all'interno del
ciclo. Una lettura che vuole collocare
quell'affresco nel dibattito a cui prese
parte attraverso un pensiero espresso
per immagini.