Recensioni / Miles Davis, il Quintetto Perduto e altre rivoluzioni

“Fu il rabbino di famiglia a farmi conoscere nel 1970 Bitches Brew”. Con questo ricordo personale si apre la prefazione di Bob Gluck dedicata al Quintetto Perduto di Miles Davis.
Un inizio che dipinge bene il milieu formativo di Gluck: pianista, compositore, storico del jazz, rabbino e professore di musica alla State University di New York; la persona giusta per ricostruire una vicenda poco studiata nella storia del jazz. Come osserva Claudio Sessa, curatore del volume edito da Quodlibet, questo non è l’ennesimo libro su Miles Davis, ma un saggio complessivo che documenta un periodo storico di grandissima creatività generale, mettendo in relazione la vicenda dei vari gruppi di Miles Davis con quanto di più innovativo si sta muovendo intorno a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, dall’epicentro di New York alle ripercussioni globali. La storia inizia con la fine del secondo quintetto di Davis (quello con Tony Williams, Ron Carter, Herbie Hancock, Wayne Shorter) e l’uscita dei due dischi che sanciscono l’entrata del trombettista in un nuovo mondo sonoro, dove il suo jazz esplora territori sonori inediti: parliamo di In a Silent Way e Bitches Brew. Il critico Ralph Gleason nelle note di copertina di Bitches Brew (Columbia, 1970) ha condannato la pervasiva presenza delle etichette di genere, quasi il “riflesso condizionato” di un mondo “plastificato” che omologa e classifica per vendere. Questo meccanismo commerciale viene messo in crisi da Davis (che peraltro il suo prodotto riesce anche a “venderlo” a un nuovo pubblico). Scrive Gleason: “Questa musica è. Questa musica è nuova. Questa musica è nuova musica e mi colpisce come un elettroshock e il termine ‘elettrico’ è interessante poiché la musica è per qualche aspetto musica elettrica sia perciò che si può fare con i nastri sia per il processo grazie al quale è conservata su nastro o per l’uso dell’elettricità nella produzione materiale dei suoni stessi”.
Il libro indaga l’originalità del percorso compiuto da Miles in questa transizione elettrica successiva allafine del secondo quartetto e lo fa paragonando le prassi esecutive, i repertori e le attivitàdei gruppi paralleli e in qualche modo imparentati al Lost Quintet, quelli che l’autoredefinisce “i figli di Ornette Coleman”: ovvero i Circle e il Revolutionary Ensemble. Ildiscorso sui Circle, il gruppo dei “fuoriusciti” dalla compagine davisiana composto da Chick Corea, Dave Holland e Barry Altschul, ai quali si unisce Anthony Braxton, permette a Gluck di compiere una lunga digressione intorno a quest’ultimo, fino ai suoi primi importanti riconoscimenti con l’avanguardia colta di Musica Elettronica Viva (MEV) con i quali collabora per un breve periodo. Nel febbrile 1968 Braxton aveva definito quello che stava accadendo “musica totale”, dove l’accento era posto sulla libertà individuale, che doveva essere assoluta (siamo all’epoca del suo 3 Compositions of New Jazz). Il libro è ricchissimo di materiali e informazioni corredate da note puntuali, quindi si rivelerà uno strumento prezioso per gli appassionati di Miles.
Il Quintetto perduto, che vede rimanere della vecchia compagine il solo Wayne Shorter ai sassofoni e mette al lavoro una nuova e giovanissima sezione ritmica composta da Chick Corea al pianoforte e alle tastiere, Dave Holland al contrabbasso e basso elettrico, Jack DeJohnette alla batteria, non ha avuto ripercussioni importanti in sala d’incisione e questo ne ha offuscato la notevole attività dal vivo. Il grande merito della ricostruzione di questo periodo, spesso ingiustamente considerato di “transizione” nella carriera di Davis, è quello di superare vecchie diatribe sull’opera del trombettista, uscendo da categorie come jazz commerciale/free che applicate alla sua opera sono ormai insostenibili.

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