Recensioni / Miles Davis e Mr Jelly, ragazzi rivoluzionari

Tra le tante più o meno graziose e utili memorabilia, ci sono libri sul jazz (a partire da quelli di Gunther Schuller, che nei '40 suonò il corno con Davis), che fotografano turning points che la Storia ci lascia in pegno. Tra questi, significativi sono i Roaring Twenties e il '68. Due volumi, entrambi per la maceratese Quodlibet, li raccontano ora davvero compiutamente: Miles Davis. Il Quintetto perduto e altre rivoluzioni di Bob Gluck e Mister Jelly Roll. Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, «Inventore del Jazz» di Alan Lomax. Si parte da Harlem e da New Orleans, l'Atene e la Firenze del jazz, e dalla loro Atmosfera Creativa.
Cominciamo da Davis. L'anno di grazia è il 1969, il momento in cui, complice il '68, la ricerca musicale cerca il sincretismo, per spiccare il volo verso una nuova rivoluzione, che Davis tenta con Wayne Shorter, Jack DeJohnette, Chick Corea e Dave Holland: non vi fu matrimonio e dunque nemmeno divorzio, fatto sta che non produssero alcun documento ufficiale di quel consorzio. Davis, ossessionato dalla ricerca per l'opera musicale totale, dal '68 al '70 cercò una sintesi e un nuovo inizio, in cui infilare bop, cool, free, fusion ma anche i Byrds, Hendrix, Cage, Bach. Nasce un nuovo modo di improvvisare, basato sulle scale modali (prima si improvvisata sugli accordi) e su un'intenzione tutta nuova, dirompente. La prefazione di Claudio Sessa, musicologo attrezzato (che cura entrambi i volumi), va subito al punto: «questo non è un libro su Miles Davis». Infatti è un viaggio in un momento della Storia che ha cambiato il nostro modo di pensare, vivere, suonare, ascoltare la musica. «Era decisamente il momento per sperimentare in tutti i modi: macrobiotica, Scientology, yoga, mettersi a testa in giù, psd, mangiare solo riso, qualunque cosa», ricorda Dave Liebman.
Cinquant'anni prima, si presenta alla Storia una rivoluzione ancora più necessaria, assoluta, che fa sbocciare un nuovo linguaggio, mai sentito prima. Cela racconta il musicologo Alan Lomax, il vero inventore della tradizione americana, con un saggio-intervista che ricorda un romanzo di Mark Twain. L'eroe della nostra storia si chiama Jelly Roll Morton, Mister Jelly Roll (abbiniamo alla lettura l'ascolto del recente Mr. Jelly Lord - Standard Time Vol. 6 di Wynton Marsalis). Quando Lomax intervistò Morton nel 1938, quel mondo non esisteva più. Eppure lì, tra le paludi del Nuovo mondo, nacque il jazz, a millemiglia da Nuova York e dalle praterie della Frontiera, ma al centro della Storia, della nostra Storia. Stefano Zenni, nella prefazione al libro, disegna un'appassionata mappa di un testo sacro apocrifo della genesi del jazz. Che nasce dalla più lunga intervista documentata della storia, durata oltre tre settimane. Chi era questo creolo di New Orleans, noto già all'epoca per un diamante scintillante incastonato tra i denti, che insieme ai Red Hot Peppers inventò il jazz, o meglio il Jelly Roll? Ce lo racconta lui: «ora lo chiamano Swing, ma è solo una piccola cosa che ho inventato un sacco di tempo fa. Qualunque cosa suonino oggi quei ragazzi, non fanno che suonare del Jelly Roll». Lui che aveva paura degli spiriti («I piatti tintinnavano durante la notte, la macchina da cucire entrava in funzione, delle catene sbattevano; sicché tenevamo dell'acqua santa in tutta la casa»), vantava e si vantava dei suoi natali francesi e si era formato a Storyville, la Silicon Valley dell'Hot Jazz («I bordelli avevano bisogno di professori, e noi offrivamo così tanti stili diversi»), fece davvero la rivoluzione. Per egoismo, a caccia com'era della fama, degli abiti alla moda, fece ingresso nel tempio sacro del jazz con l'High Society, tra i brani che lo resero celebre, scritto dal collega Alphonse Picou, di professione lattoniere.
Morton e Davis, così vicini, così lontani. Rivoluzione Estetica vs Politica. Protagonisti di due volumi che raccontano altrettante rivoluzioni o forse l'inizio e la fine della medesima, quella che ha dato vita ad un modo di sentire suonare, vivere la musica e a quelle due età del jazz (arcaico/classico e moderno), il cui spartiacque è stata la Guerra (nel 1945, semplificando, nasce la moderna jam session, ad Harlem). Dopo la rivoluzione di Davis, il jazz ha saputo rinnovarsi e con successo, ma senza rivelare nuovi paradigmi. Se c'è stata una terza rivoluzione del jazz, non porta il nome di un musicista ma di un'etichetta, l'ECM, che ha segnato il canone del new jazz e di ogni musica improvvisata, con opere come Witchi-Tai-To (Jan Garbarek & Bobo Stenson Quartet, 1974), The Köln Concert (Keith Jarrett,1975), The PilgrimAnd The Stars (Enrico Rava,1975), Bright Size Life (Pat Metheny,1976) ed esperimenti senza etichetta come Tabula Rasa (Arvo Pärt,1984) e Musíc For 18 Musicians (Steve Reich,1978). Ripartiamo allora da queste due letture del camino, quasi-romanzi che evocano vite bruciate che hanno alimentato a fuoco vivo la Storia, non solo musicale, del Novecento.

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