Recensioni / Surfare contro il potere costituito. Intervista a Graziano Graziani, dall’Isola delle Rose alle micronazioni

Una piattaforma in acque extra-territoriali, il folle progetto di un ingegnere emiliano e l’esperanto come lingua per redigere la Costituzione: sono alcuni degli elementi che compongono l’incredibile dell’Isola delle Rose, “micronazione” fondata al largo di Rimini nella primavera del ‘68. La vicenda è da poco tornata alla ribalta grazie a un film diretto da Sydney Sibilla e prodotto da Netflix, con la partecipazione dell’attore Elio Germano. L’esperimento, però, ha avuto vita breve: dopo poco più di un mese dalla fondazione, infatti, le forze dell’ordine occuperanno la piattaforma e, attraverso una lunga battaglia legale, lo stato italiano proclamerà l’Isola fuorilegge. Per alcuni si è trattato di una mera impresa commerciale, di un tentativo di fare affari ed evadere la fiscalità nazionali, per altri di un esperimento utopico che evoca una concezione più ampia di libertà e di emancipazione.
Certo è che, per quanto curiosa, la parabola dell’Isola delle rose non rappresenta l’unico esempio di “secessione creativa” da un contesto nazionale. Quella delle micronazioni costituisce infatti una “pratica” relativamente diffusa in diversi momenti storici, che fa emergere le contraddizioni del potere e che sa intercettare sia le tensioni più egoistiche che slanci e afflati di stampo comunitario.
Tra processi di svuotamento dei centri decisionali, narrazioni seduttive e aspirazioni all’autodeterminazione, il tema delle micronazioni interroga dunque la possibilità di cambiare il proprio destino e di influenzare il presente. Ne abbiamo parlato con il giornalista e ricercatore Graziano Graziani, conduttore del programma radiofonico Fahrenheit (Radio Tre) e autore di Atlante delle micronazioni (Quodlibet, 2015), che è stato peraltro uno dei primi a ricostruire la vicenda dell’isola indipendente al largo di Rimini sulla base anche delle testimonianza dell’ingegner Rosa.

Partiamo dalla produzione Netflix L’incredibile storia dell’Isola delle Rose diretto da Sydney Sibilia. Ti sembra una ricostruzione fedele?
Il film l’ho trovato divertente. Pur aggiungendo alcuni elementi immaginari, è abbastanza rispettoso della parabola storica dell’isola. Vengono ingigantiti e “romanzati” alcuni aspetti – come, per esempio, il carattere dell’ingegner Rosa, che nel film viene presentato un po’ più “sognatore” e “strampalato” di quanto fosse in realtà – ma si tratta di espedienti narrativi che servono a restituire l’idea di una lotta portata avanti da un piccolo gruppo di persone contro il grande potere dello stato.
In fondo è proprio questo il senso dell’intera vicenda, almeno nella sua parte conclusiva: per poter sgomberare l’Isola, l’Italia applicò una legge speciale che consentiva di estendere la sovranità sulle acque territoriali in casi in cui l’integrità del territorio nazionale fosse in pericolo. Ora: la piattaforma dell’ingegner Rosa costituiva effettivamente un simile pericolo? A questo si univano interessi relativi all’estrazione di risorse carbonifere, tanto che poi quella zona di mare fu data in concessione all’Eni.
Insomma possiamo dire che, almeno in una certa misura e dal punto di vista giuridico, l’Italia ha commesso un abuso. La battaglia legale che ha seguito la vicenda dell’Isola delle Rose ha assunto i tratti di un conflitto in stile “Davide contro Golia”. La disparità dei mezzi e degli strumenti messi in campo giustifica la visione del potere che traspare dal film, che intende cioè il potere come qualcosa di grottesco, davvero sproporzionato e opprimente nei confronti degli individui che tentano l’“impresa” dell’Isola delle Rose.

C’è quindi un aspetto di contestazione dell’autorità…
Il film ha bisogno di una componente epica e, per costruirla, si rifà allo spirito del periodo in cui si svolgono le vicende, dunque all’“epica” del ‘68 e a una generica idea di utopia libertaria. Qualcosa di simile l’aveva già tentato Walter Veltroni nel suo L’isola e le rose, dove la storia della piattaforma al largo delle coste romagnola veniva trasfigurata in un orizzonte di emancipazione prettamente culturale, per cui dei giovani decidevano di vivere su quest’isola ascoltando dischi e consumando letture…
Nel caso dell’Isola delle Rose, però, la realtà era un po’ diversa. I protagonisti della vicenda, infatti, non erano ventenni utopisti ma dei quarantenni professionisti che volevano fare affari. Ma non erano semplicemente degli aridi calcolatori: ci hanno messo dell’inventiva e della creatività, come dimostra la Costituzione dell’isola redatta in esperanto (e infatti per molto tempo la memoria storica della vicenda si è tramandata attraverso circoli di studio dell’esperanto).
Tutto ciò riflette dunque una tensione utopica sincera e mostra quanto il tema della libertà fosse al centro dell’esperienza dell’ingegner Rosa e soci. Più nello specifico, riflette un desiderio di libertà che si contrapponeva soprattutto all’aspetto più coercitivo e burocratico dello stato, inteso come un’entità sostanzialmente monopolistica e accentratrice.

È qualcosa che accomuna tutte le micronazioni?
Sicuramente quello che le accomuna è il tentativo di sottrarsi a questo controllo, che viene poi declinato in vari modi. Come già accennavo, nel caso dell’Isola delle Rose l’insofferenza verso la coercizione statale si intrecciava saldamente alla voglia di fare affari. Siamo di fronte a Rimini, nell’area della riviera romagnola: si vocifera che Rosa avesse intenzione di creare un casinò sulla piattaforma, il che avrebbe rappresentato un enorme guadagno se si escludono le tasse. Questa è forse un’illazione, ma certo esisteva il progetto di ampliare la base dell’isola e aprire hotel e ristoranti.
Di fatto, era un tentativo di imitare piccoli stati come San Marino, residui del feudalesimo europeo che sono però anche a tutti gli effetti dei contesti in cui è possibile evadere le tasse. Una storia simile è quella del Principato di Sealand, uno stato autonomo fondato addirittura prima dell’Isola delle Rose su una ex-piattaforma militare al largo delle coste inglesi, la cui storia intreccia quella di Pirate Bay, la piattaforma di filesharing poi diventata partito. In questo caso al centro della vicenda ci sono la pirateria radiofonica e informatica.
Oppure ancora, i progetti folli di Peter Teale, uno dei due fondatori di Paypal, che con la Systemic Foundation cerca di capire come aggirare le leggi internazionali e, fra le ipotesi, ha messo in campo quella di realizzare una città galleggiante che navighi letteralmente fra diverse giurisdizioni internazionali senza battere bandiera di nessun paese. Insomma, in generale esiste una tensione comune a evadere le normative vigenti, a “surfare” liberamente fra diversi quadri legislativi e trovare il modo di realizzare i propri progetti.

I principi d’ispirazione sembrano però soprattutto commerciali, principi “di destra” in un certo senso…

Le vicende riconducibili al fenomeno delle micronazioni abbracciano ideali e protagonisti che, per così dire, coprono tutto l’arco parlamentare. Esprimono un principio di ribellione nei confronti dei sistemi di potere che impongono determinati comportamenti attraverso un controllo di stampo burocratico e che, utilizzando una terminologia non del tutto pacifica, potremmo definire tecnocrazie.
Si tratta di un tema evidentemente affascinante tanto per la destra quanto per la sinistra, a seconda magari che le imposizioni del potere si diano rispettivamente in campo fiscale (e allora la libertà agognata sarà appunto una libertà di tipo economico) o in campo delle relazione comunitarie (e allora la tensione utopica sarà maggiormente di stampo sociale).
Queste storie folli e un po’ strampalate, come la storia dell’Isola delle Rose, raccontano dunque della possibilità di “tornare a essere re a casa propria”, della possibilità di influenzare il proprio destino politico per mezzo di una separazione arbitraria da un contesto che invece non sembra più governabile, o nel quale si percepiscono ostacoli alla propria autodeterminazione. Sono chiaramente vicende ambivalenti, politicamente ambigue, ma che esercitano attrazione in diverse direzioni.

C’è un particolare periodo storico in cui nascono e si diffondono?
È interessante come molti di questi esperimenti hanno luogo fra gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, che hanno visto un po’ l’esplodere del fenomeno delle micronazioni, e gli anni ‘80, che rappresentano invece l’epoca del reaganismo e del thatcherismo, in cui si struttura quell’ordine neoliberale con cui abbiamo ancora a che fare. Stiamo parlando di un periodo in cui tra l’altro avviene quel processo di trasferimento di potere sempre più “in alto”, verso istituzioni sovranazionali come l’Omc o l’Unione Europea stessa e le banche centrali.
Insomma, in quei decenni i centri decisionali si allontanano sempre più dalla cittadinanza e, fra le altre cose, si consuma anche la cosiddetta “crisi dei corpi intermedi”. Se ci pensiamo, negli anni ’60 non era così impossibile trattare con il potere: ci si poteva recare nella sezione di partito del proprio quartiere, presentare le proprio problematiche al capo sezione, il quale automaticamente era in contatto con un parlamentare. Era, tutto sommato, una “filiera corta”. Oggi invece i regolamenti sono molto più stringenti, anche la possibilità di cambiare il vivere civile attraverso l’attivismo politico sembra molto compromesso. Si è fatta strada l’idea di una politica impotente, svuotata dai meccanismi della finanza e dal controllo tecno-burocratico.
Ecco allora che il fascino delle micronazioni deriva in entrambi i casi dalla percezione di questo processo di svuotamento. Si tratta, insomma, di un fenomeno che raccoglie variegate forme di contestazione dei meccanismi sovrastatali, che raccontano di un malessere di fondo. È chiaro che le micronazioni non possono ovviare a un tale malessere, ma possono “eccitare politicamente” gli animi, palesare la possibilità di un piccola riscossa contro lo stato di cose.

Una riscossa che, però, sembra quasi esclusivamente individuale…
La potenza della narrazione che le micronazioni mettono in campo sta tutta nel fatto che intercettano aspirazioni e insofferenze, rendono manifeste delle contraddizioni. In fondo, è paradossale: multinazionali e soggetti finanziari spesso agiscono in maniera simile ai fondatori delle micronazioni, eppure non vengono ostacolati e raramente subiscono condanne: semplicemente, hanno gli strumenti e le risorse per far sembrare che sia legale. In fondo costruiscono delle narrazioni, che reggono finché non viene opposta una contronarrazione da parte di un altro potere.
Sui “piccoli”, invece, le normative si abbattono con maggiore violenza e la contraddizione emerge in maniera evidente, soprattutto per chi si imbarca nella creazione di una micronazione non in maniera truffaldina, ma seguendo un ideale utopico e in qualche modo più “strampalato”. Allo stesso tempo, diventa evidente come – in un certo senso – lo stato non esiste. L’esperimento delle micronazioni rende palese quanto sia arbitrario dire: «Questo è uno stato, questa è un’identità nazionale, questa è la legge che ha valore assoluto»… Lo stato in fondo è una grande narrazione collettiva che, a un certo punto, ottiene un potere coercitivo e il monopolio della violenza.
Ecco allora che alcuni progetti di micronazione denunciano (anche indirettamente) come a volte una simile arbitrarietà del potere rischi di sovrastare e schiacciare la libera aspirazione dei popoli. Le esperienze maggiormente legate a una rivendicazione di diritti dicono proprio questo: vogliamo autodeterminarci! Le micronazioni, poi, colgono un’ulteriore contraddizione: si crede al potere anche sulla base dei nostri desideri. Esistono cioè sia un aspetto coercitivo che un aspetto seduttivo del potere. Le micronazioni ci spingono dunque a porci la domanda: quanto ci lasciamo sedurre dal racconto che un’istituzione fa?

Ti sembrano domande simili a quelle che animano anche esperienze più movimentiste come le occupazioni?
In entrambi i casi c’è in atto una contestazione filosofica e giuridica di quelli che sono i criteri attraverso cui vengono definiti i rapporti sociali e attraverso cui è regolamentata la socialità. Le esperienze di movimento, come le occupazioni, hanno indubbiamente trasgredito delle leggi, ma si tratta di trasgressioni esplicite che mirano alla costituzione di comunità e di forme sociali alternative. L’idea che si possa forzare il diritto accomuna dunque narrazioni movimentiste e micronazioni. È chiaro, però, che farlo per il proprio interesse o farlo per un discorso politico sono due cose diverse.
Ma la rottura alla base è simile. Negli anni ’70 peraltro si è sviluppata l’esperienza delle comuni e Christiania rappresenta in questo senso l’anello di congiunzione fra comuni e micronazioni. Tuttavia, le comuni non si ponevano il problema del riconoscimento giuridico, ma semplicemente si isolavano dal mondo, salvo poi creare dinamiche talmente contraddittorie da spingere lo stato a intervenire per ristabilire alcune norme. Penso ai bambini nati nelle comunità degli Elfi e non registrati all’anagrafe per esempio…
Un altro elemento affascinante è quello delle Taz (Zone Temponeamente Autonome). Tutta la narrazione degli anni ‘90 legata al pensiero di Hakim Bey si basa sull’idea che delle zone di socialità o comunque delle contro narrazioni potessero erodere porzioni di controllo al potere costituito. In fondo le micronazioni, le occupazioni, le storie di movimento sono anche questo: l’erosione di porzioni di territorio, la creazione di socialità, di esperienza collettiva contro un determinato ordinamento che è considerato “cieco” e ingiusto.

Adesso siamo in una nuova fase?
In passato le micronazioni suscitavano interesse non solo perché sono storie paradossali, ma perché mettevano al centro l’individuo. In questo senso è una narrazione molto legata al capitalismo occidentale, che vede appunto l’individuo come assegnatario di una serie di diritti, sia come self-made man che come soggetto capace di vivere una piena vita spirituale e comunitaria. Oggi, invece, andiamo verso un tipo di narrazione più post-umana in cui siamo tutti parte di un ingranaggio, caratterizzato dallo schiacciamento della dimensione individuale.
In questa pandemia siamo chiamati a limitare i nostri comportamenti in quanto membri di un insieme biologico più ampio. Si tratta di una messa in discussione delle gratificazioni individuali in un contesto sovraindividuale, in cui il singolo ha meno diritti perché deve salvare il sistema. In un certo senso è anche il motivo per cui il pensiero ecologico, che si basa molto sul concetto di limite, ha fatto fatica a dialogare con la sinistra industrialista degli anni ’60, che invece legava (non senza delle ragioni concrete) l’idea dell’allargamento dei diritti alla crescita economica.
Oggi tutte quelle gratificazioni che hanno a che fare con la dimensione dell’individualismo sono messe in discussione. Siamo un una dimensione “post” e questa cosa crea una shock. Per questo le dimensioni piccole, come magari quelle dei borghi tanto decantate da un certo tipo di marketing turistico, diventano interessanti: ci danno l’illusione di una dimensione in cui non siamo parte di una macchina più grande. Ma la verità è che si tratta di idealizzazioni. Spesso queste dimensioni comunitarie generano altre forme di controllo, egualmente limitanti e oppressive nei confronti dell’individuo.

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