Recensioni / Lo zen è l'arte sovietica di aspettare il timbro per riavere una soprascarpa persa in tram

Se non conoscete Michail Michajlovic Zoscenko, cosa probabile, o non lo avete mai letto (probabilissima), eccovi a disposizione un ottovolante di novelle, aneddoti e storielle da divertirvi un bel po': Racconti sentimentali e satirici (Quodlibet). E oltretutto è un libro istruttivo, perché potreste sciogliere dubbi che vi hanno sempre turbato. Per esempio: «E permesso a un cittadino sovietico di darci dentro con le frittelle? O è un pregiudizio religioso?». Quel che è certo è che imparerete una cosa: nella Russia Sovietica si rideva parecchio, anche grazie a Zoscenko.
Nato nel 1894 a Pietroburgo, si è sciroppato una guerra mondiale, due o tre rivoluzioni, una guerra civile per cui si è arruolato volontario nell'Armata Rossa restando intossicato dai gas, e poi... «Adesso mi sono procurato un vizio cardiaco ed è per questo, senz'altro, che son diventato scrittore».
Per farla breve: dai primi anni Venti alla metà dei Quaranta, Zoscenko diventa un faro della satira sovietica, pubblica racconti (centinaia) su diverse riviste, poi libri, romanzi, pièce teatrali, corsivi sui giornali, apologhi grotteschi della sua epoca, inventa decine e decine di personaggi - bozzetti esilaranti, vivi - di cittadini sovietici alle prese con i più disparati problemi, che siano l'alloggio, le frittelle, i bagni pubblici o la dote per sposarsi.
Famoso, popolare, venduto in milioni di copie, tutto bene. Solo, un piccolo problema: nelle storie di Zoscenko il famoso «Uomo Nuovo» che la Rivoluzione dovrebbe forgiare, non c'è. Va bene, là fuori si edifica il Socialismo, con l'elettrificazione e tutto il resto, ma qui dentro, tra le pagine, si dibatte invece il cittadino russo qualunque che abita tanta letteratura, un po' matto e un po' imbroglione, un po' timoroso del potere e un po' illuso di farne parte. Come il ragazzotto Pal'ka che fa cascare un cieco da una rupe perché «Non sono più i tempi di guidare i ciechi, mica siamo in regime zarista». O come i ladri: «Ormai non si trova neanche uno che non gli abbiano fregato qualcosa». C'è un'eco di Gogol', si dirà (e dove non c'è un'eco di Gogol', in una cosa russa che fa ridere?), ma anche - oso - qualcosa di quel grande romanzo che è Il demone meschino di Fëdor Sologub: le piccole cose, i dettagli, le seccature quotidiane, e tutto l'assurdo di cui siete capaci.
Da fare un salto sulla sedia, insomma. Non solo per le piccole vite sovietiche che si dibattono nel Mondo Nuovo tra burocrazia e divieti, ma anche per la lingua, dritta, parlata, popolare al limite della sgrammaticatura, eppure - o forse per quello - così vera e divertente. Di tutto questo dice benissimo il saggio di Sergio Pescatori (scomparso nel 2015, sua anche la traduzione, spericolata e mirabolante) che chiude questa raccolta, specie quando parla dello skaz di Zoscenko, parola che indica sia il narratore che la storia narrata, un impasto indissolubile, e - permettete, cittadini - inequivocabilmente russo.
Si ride, si ride un bel po', e ridevano anche i russi, almeno finché si poteva ridere. I racconti di Zoscenko sono vere storie russe, sempre con un narratore «del popolo» stupefatto dagli eventi, bozzetti di costume che spingono sulla satira, sempre mantenendo una limpidezza e uno stile già da soli esilaranti. Ci scorre così sotto gli occhi in questa sessantina di piccoli racconti, lo spaccato grottesco di un quindicennio di vita sovietica (dal '22 al '37), quando si aspettava l'«Uomo Nuovo» con lo stesso paziente fatalismo con cui i personaggi di Zosèenko aspettano un certificato col timbro statale per lo smarrimento di una soprascarpa in tram. Un affresco fatto di miniature divertenti che vale - come sintesi della vita sovietica della povera gente - quanto quel perfetto aforisma di Erofeev: «Loro fingevano di pagarci e noi fingevamo di lavorare».
Non poteva durare.
Nell'agosto del '46, ecco l'occhiuto vigilante Zdanov, sentinella della linea culturale del Partito, che gli fa il contropelo. Zosèenko?, un «piccolo borghese calunniatore dellavita sovietica». E anche, peggio: «E difficile trovare nella nostra letteratura qualcosa di più ripugnante della morale che Zoscenko va predicando» (per inciso, nello stesso discorso, Zdanov aveva riservato le stesse attenzioni ad Anna Achmatova). Ironia nella disgrazia: il potere censore citava, oltre a un romanzo, Prima che sorga il sole, il racconto Le avventure di una scimmia (che chiude questa raccolta), quasi innocuo, meno acido e caustico di altri lavori.
Seguirono anni di oscuramento e oblio, depressione, tristezza, piccoli lavori per campare, fino alla riabilitazione, lenta e faticosa, di cui Michail Michajloviè Zoscenko non poté giovarsi troppo, dato che morì nel '58, sconfitto eppure grandissimo. Ridere oggi, grazie a lui, è un'altra riabilitazione, e per queste cose non è mai troppo tardi.