Recensioni / André Schiffrin, Editoria senza editori

Il saggio di André Schiffrin non è nuovo per l’Italia: la traduzione di Alfredo Salsano era già uscita presso Bollati Boringhieri nel 2000, e tuttavia il suo valore è tale per cui la ripresa della medesima traduzione presso Quodlibet non può che essere positivamente salutata. Nel frattempo, nel 2013, l’autore è scomparso a Parigi (era nato nella stessa città nel 1935), ma i suoi saggi – dedicati al rapporto tra editoria e società – sono stati via via tradotti e pubblicati in Italia: Il controllo della parola da Bollati Boringhieri nel 2006, Libri in fuga. Un itinerario politico fra Parigi e New York e Il denaro e le parole da Voland rispettivamente nel 2009 e 2010. Ora, a parte il bel diario autobiografico Libri in fuga – appassionante memoria di una famiglia di intellettuali ebrei che, in fuga dalla Russia, sosta a Parigi e approda infine a New York dove continua a fare editoria – il saggismo di Schiffrin è traversato da un solido motivo di fondo: quali sono i modi possibili per salvaguardare un’idea di editoria, e in generale una cultura indipendente dallo strapotere – all’epoca montante e oggi ben radicato – della produzione di consumo.
Il saggio riedito da Quodlibet contiene appunto il nucleo della vicenda: quella di un uomo e di una casa editrice di cultura, la Pantheon Books fondata a New York nel 1941 dall’emigrato tedesco Kurt Wolff. Vi si associò ben presto il padre dell’autore, Jacques, rifugiatosi negli Stati Uniti dopo aver fondato e diretto a Parigi fino al 1940 Les Éditions de la Pléiade e ideato l’omonima collana infine confluita come raffinata raccolta di classici nel grande ventre di Gallimard. Nei primi anni Sessanta l’autore fece a sua volta ingresso nella Pantheon Books, pubblicando Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Simone de Beauvoir, Gunther Grass, Noam Chomsky, Art Spiegelman e trasformandola in una delle più prestigiose case editrici americane. Fino al 1990, anno in cui si consumò lo scontro con il gruppo di Samuel Irving Newhouse, nuovo proprietario della Pantheon Books, e col direttore Alberto Vitale: i tassi di rendimento che la nuova proprietà imponeva erano speculativi (il 15% contro la media del 3-4% dell’editoria di cultura) se non al prezzo di pubblicare quanto poteva piacere al mercato e non quel che i cervelli della redazione volevano. L’idea di Schiffrin – che percorre l’intero saggio – è che una casa editrice non deve sfornare solo best-seller, o almeno: è giustificabile sul piano dell’impresa che una casa editrice produca titoli di sostegno, ma la vocazione di fondo, quella più radicale, dovrebbe essere la pubblicazione di titoli di cultura medio-alta. Era insomma secondo lui necessario che l’editoria non si appiattisse sul mercato e sostenesse una cultura di ricerca: l’esito finale dello scontro fu l’auto-licenziamento di quasi l’intera redazione, evento che innescò negli Stati Uniti un caso per il quale si mobilitò un ampio gruppo di intellettuali.
Schiffrin fondò così, nel 1991, la casa editrice indipendente The New Press, nel cui programma qualcosa di raro per l’America: creare un catalogo di saggistica e letteratura tradotta. E al traino di questa esperienza ecco nascere il testo de L’édition sans éditeurs, uscito in Francia nel 1999 e subito tradotto in Italia come Editoria senza editori, prima denuncia dei guasti legati alla trasformazione monopolistica dell’editoria statunitense.
La densa prefazione originale di Salsano – ripresa in questa edizione – pone subito un’interessante osservazione: «La storia della Pantheon Books e poi di The New Press, di cui si leggerà l’appassionata ricostruzione a opera del protagonista di quarant’anni di storia editoriale non solo americana, è per molti versi esemplare della grande trasformazione che ha colpito il mondo del libro negli ultimi decenni e in particolare negli anni Novanta». Ecco: se il saggio di Schiffrin analizza la situazione statunitense, i quarant’anni di storia editoriale che vi sono narrati hanno trasformato anche la scena europea. Se insomma leggiamo qui una vicenda americana, ne leggiamo al contempo anche una del vecchio continente: quella per cui a dominare progressivamente sono stati, nel mondo globale dell’editoria, i grandi gruppi del profitto.
Il saggio di Schiffrin esordisce con una narrazione dell’editoria europea di qualità, incarnata nel padre Jacques e la sua casa editrice; seguono i fatti dell’espatrio e l’approdo alla Pantheon Books, che in breve assurse a casa editrice fondata sull’“impegno” (prodotto che ha una sonorità geneticamente francese), su un lavoro radicato nella passione, avulso dalle mode correnti e attento ai temi culturali rilevanti; e con alcuni episodi che ne segnarono il destino, come l’accettazione prudente (4.000 copie di prima tiratura) di un libro russo giudicato “difficile”: Il dottor Živago di Boris Pasternak: «Il premio Nobel ne fece un best seller internazionale e la casa editrice, sommersa di ordini, ne vendette più di un milione di copie in versione rilegata, poi più di cinque milioni in tascabile. Questo successo sarebbe stato seguito dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e in pochi mesi Pantheon, da casa editrice marginale in lotta per la sopravvivenza, divenne una società con grandi utili» (p. 50). L’afflusso di danaro modificò irrevocabilmente, com’è intuibile, il destino della casa editrice in cui stava per fare il proprio ingresso il nostro autore.
E da questo momento il saggio si sviluppa lungo diversi rami, ma sempre calca su un punto: il senso del libro di cultura, valutato come prodotto di valore intrinseco solo marginalmente collegato al valore di merce e alla frequente caratteristica di prodotto mal vendibile. Vigeva insomma fin dagli inizi, alla Pantheon Books, l’opposizione all’idea che la ricerca ossessiva del bestseller e dei profitti dovesse do minare il campo.
Giunto in casa editrice a ventisei anni, nel 1962, Schiffrin ignorava del tutto i problemi dell’editoria, e tuttavia ne segnò ancora – in un costante colloquio con la cultura europea – il tragitto della fama. Era l’idea di editoria, al contempo rigorosa e popolare, che egli ereditava dal padre, ma che aveva come precedenti gli esperimenti inglesi di Penguin Books e del Left Book Club, quello statunitense della New American Library of World Literature, illustri modelli di miglioramento qualitativo della letteratura prodotta per il grande pubblico, esperienze di rilevanza politico-culturale ma anche di buon successo commerciale. Ecco come Schiffrin stimmatizza il fenomeno in poche righe: «Gli editori della New American Library non consideravano i lettori come una élite ristretta e il pubblico come una massa di cui si dovesse incoraggiare il cattivo gusto» (p. 55).
Tutto andò liscio, fin quando la Pantheon Books fu acquisita dal grande gruppo di Newhouse, che perseguendo l’obiettivo dei rendimenti cospicui e immediati tagliò il personale e il programma editoriale. Una concezione manageriale che alterò in breve tempo il sano rapporto confidenziale tra autori ed editori e fece diventare il libro non più il prodotto di un progetto di crescita culturale ma un elemento di corredo della sfera del divertimento, intrattenimento e informazione. Si realizzava quella mutazione che ha portato a escludere l’“arcaica” pubblicazione di opere di ingegno e di pensiero critico, lasciando al mercato la decisione di cosa procurare al pubblico. La mutazione profilava quella realtà che Schiffrin definisce appunto «editoria senza editori»: dispotico processo di concentrazione neocapitalistica infine approdata nella creazione di cinque grandi colossi che, a fine Novecento, controllavano l’80% del mercato librario statunitense.
E se questa è la conseguenza che si è avverata sul mondo editoriale, ben più grave è quella antropologica e sociologica, ben svelata dall’autore. Il processo di riduzione razionalistica al mercato produce una desertificazione culturale, e peggio: l’omologazione sottesa all’idea editoriale del bestseller stampato in milioni di copie ha come effetto conclusivo l’angustia culturale del lettore e il suo destino di mediocrità. Nulla di democratico alle spalle di questa idea di editoria, nulla di popolare e umano, come d’altra parte ben argomenta Andrea Cortellessa nella postfazione alla presente edizione, una bella analisi critica intitolata Benvenuti nel deserto del reale che ribadisce l’attualità delle considerazioni poste da Schiffrin più di vent’anni fa, quando ancora Internet doveva diffondersi a macchia d’olio, ancora non esistevano i “social” e i gruppi di commercio on-line. Come a dire che il grido di allarme e di dolore di Schiffrin si sollevava in un mondo in cui ancora non s’era diffusa l’ideologia dell’accesso incondizionato e gratuito alla cultura, dell’acquisto immediato con carta di credito di qualunque cosa. Le conseguenze di tutto ciò sono sotto i nostri occhi, e non sono certo positive. Il che fa del saggio di Schiffrin – come si suol dire – qualcosa di molto “attuale”.