Recensioni / Uno dei più incredibili borghi italiani si sta letteralmente sgretolando

Civita di Bagnoregio è uno dei più incredibili borghi italiani – e sì che la concorrenza non manca – e deve la sua unicità al suo continuo sfaldarsi: Civita è nota come la città che muore, e basta osservarla mentre si attraversa il ponte che maldestro la ancora al resto del paesaggio per capire quanto sia letteralmente concreta la definizione. Il ponte di Civita unisce infatti il borgo non alla terraferma, o meglio, non nel senso che solitamente intendiamo per un’isola. Eppure Civita è un’isola, un grido di tufo che si erge tra due valli solcate da calanchi, che sprofondano in burroni che sembrano crettati dalla spatola di un pittore gigante e crudele. Lo zoccolo stesso su cui sorge Civita di Bagnoregio è fatto di quei calanchi, che altro non sono che un negativo, una sottrazione di territorio che da millenni continua a erodersi.
Quando sono andato a Civita era il giorno di Pasquetta, passavo la Pasqua dai miei zii, lì vicino, e così il giorno successivo pensammo di fare una gita nel rinomato paesino, idea come fu presto chiaro comune a gran parte della popolazione laziale. Il ponte era invaso di teste, impossibile camminarci neanche a passo d’uomo, la ressa era appena meno fitta una volta raggiunto il borgo: è un ricordo che mi torna utile dovendo scrivere del libro appena pubblicato da Giovanni Attili per Quodlibet – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni – considerando che la morte propagata dal divenire non-luogo turistico, carrellata di bancarelle e prodotti sedicenti tipici, finisce per abbracciarsi a quella ancora minacciata dall’avanzare dei burroni sui due torrenti che continuano indefessi il loro lavoro di erosione: il Rio Torbido e il Rio Chiaro.
La domanda che ci pone l’esistenza stessa di questo volume è una domanda cardine dei nostri tempi, ed è esplicitata nella bella introduzione firmata da Giorgio Agamben: che cosa significa abitare? “Sappiamo ancora che cosa significa abitare un paese, una città, un territorio? E che cos’è un paese, se lo si pensa a partire dall’abitare?” La questione rimbalza in uno dei più convincenti saggi dello scorso anno, Essere senza casa di Gianluca Didino, uscito per minimum fax. La declinazione della domanda che leggiamo tra le pagine intense e profonde (e ricche di illustrazioni e materiali storici, che spaziano dagli archivi alle testimonianze di vita anche minuta) di Civita, mette l’accento sulla nostra capacità di vivere in quello che è stato il nostro spazio, e il sottotitolo ci mostra come il borgo sia un esempio archetipico e perfetto (e per questo può viaggiare “senza aggettivi e senza altre specificazioni”): Civita di Bagnoregio è in qualche modo un modello in vitro delle città occidentali, o almeno di quelle europee, con il surplus che oltre alla sottrazione di significato pagata per lo scotto del turistificio, Civita si sta letteralmente sgretolando. È la nostra Isola di Pasqua, una Venezia ancora più piccola ed estrema.
Il libro si articola in tre sezioni, la prima (Terra madre e matrigna) ha un andamento da ricostruzione storico-archeologica-antropologica, condotta a partire dai materiali d’archivio del liber consiliorum di Bagnoregio. Si scopre così l’antico rapporto tra la città e i calanchi, che ampliandosi in crolli rovinosi ne hanno inghiottito case, chiese, rioni, vita. Da sempre. Senza comunque riuscire a mettere un freno al desiderio dei civitonici di continuare ad abitare il loro “cucuzzolo di tufo”.
La seconda parte (Terra d’adozione) racconta l’arrivo a Civita, nel 1963, di Astra Zarina, un’architetta lettone che innamoratasi del borgo vi si stabilisce, ne scopre le antiche tecniche di costruzione (e le antiche tradizioni), le riporta in vita e comincia a ripopolare il borgo, attraverso iniziative come la scuola residenziale Hilltowns Program, che consente a giovani studenti di architettura di vivere nel borgo per alcuni mesi – in una sorta di minuscolo programma Erasmus ante-litteram (che Civita di Bagnoregio anticipi i tempi in modo simbolico, del resto, lo abbiamo già detto). L’ultima parte del volume (Terra di spettacolo) è il racconto della triste metamorfosi turistica, una sottrazione di vite dal borgo che lotta con la morte significativa anche numericamente: dai 60 abitanti di qualche decennio fa si è infatti scesi ad appena 11, come a voler prefigurare che ciò che in fondo non sono riuscite a compiere le eterne e rovinose frane, sta invece riuscendo all’Antropocene.