Recensioni / Tempo-spazio in letteratura

La nozione di cronotopo rimanda necessariamente a Michail Bacthin, alla definizione che ne dettò e conviene per memoria trascrivere: cronotopo denomina «l’interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita artisticamente». Nozione, dunque, quanto mai flessibile e adattabile a una serie di situazioni narrative o di momenti rivelatori disseminati in brani o in versi nei quali il rapporto stringente tra paesaggio e tempo è fissato in scene dotate di una loro intoccabile pregnanza. Luca Lenzini in un aureo libretto (Cronotopi novecenteschi. Intrecci di Spazio e Tempo in poesia, Quodlibet, Macerata 2020) applica la categoria ad alcuni degli autori da lui frequentati con intensa adesione ermeneutica e ne vien fuori un itinerario ricco di suggestioni e di sorprendenti incontri: che, pur distanti, echeggiano talvolta un clima culturale comune, una condivisa disposizione psicologica. Probante l’attacco, dove la breve sosta a Lubecca dell’autore – in Tonio Kröger di Thomas Mann – è ambientata in un scenografia comparabile ad un passo del Čechov di Giardino dei ciliegi. Nei due casi passato e presente s’incrociano in un clima di nostalgia che sollecita a riflettere sull’inevitabile distacco da un luogo, da consuete devozioni e familiari legami. Sicché i luoghi si caricano di effetti simbolici e intrattengono con lo scorrere del tempo una relazione segnata da emozioni, sentimenti, sensazioni. In questa fine commedia critica sono convocate figure che, magari pronunciando frasi mozze o sostando in cari paesaggi, hanno goduto di particolare ascolto da poeti. E sono indagati con sottile penetrazione da Lenzini: Gozzano, Sereni, Fortini in primis e non i soli. L’analfabeta del rattristato Guido è un pezzo esemplare di questo lancinante riemergere della sagoma di un antenato che pare uscire da un tenue graffito liberty: «Biancheggia tra le glicini leggiadre / l’umile casa ove ritorno solo. / Il buon custode parla: « O figliuolo, / come somigli al padre di tuo padre! // Ma non amava le città lontane egli che amò la terra e i buoni studi della terra e la casa che tu schiudi / alla vita per poche settimane…». Non sarà una sosta sgombra di angosce quella che Guido trascorrerà nella dimora in disuso: i quadri ivi custoditi, come in un involontario simulacro della storia, animano avventurose fantasie e rammentano i rapimenti di «un bimbo illuso dalle stampe in rame». Mi son lasciato prendere dalla rilettura del testo di un poeta amatissimo, tradendo il succinto citazionismo di saggi, che nulla concedono a superflue digressioni. Tonio è assalito da una non dissimile nostalgia quando entra nella piccola stanza dove passava le ore da bambino: «Là era tornato, finita la scuola, dopo aver fatto […], come pocanzi, una passeggiata, alla parete stava il suo tavolino, nel cui cassetto aveva serbato i primi versi impacciati e intimamente sentiti…». Quel luogo era stato anche fonte di un’ispirazione che riaffiora da parlanti reliquie. Non accade lo stesso nelle Due strade di Guido Gozzano, all’intersecarsi di direttrici che disegnano il ritmo irrevocabile di un incontro che spinge alla misurazione del tempo? «Il ritorno – sottolinea Luca – ai luoghi della topografia familiare fa scattare il riapparire del passato: l’incontro per strada si trasfigura, per il carico dei ricordi di cui è saturo il paesaggio, in epifania…». Vittorio Sereni è chiamato, a riprova, in pagine tra le più analitiche: dedicate a Un posto di vacanza, nella realtà Bocca di Magra, dove si rincorrono le voci di Elio, Giancarlo, Franco. Voci amiche di chi ha terminato il viaggio e restano impresse in un’insenatura che fu per tutti accogliente abbraccio. Franco Fortini in Incontri nel bosco rilancia il motivo del vagabondaggio che induce a «esplorare zone alternative dell’esperienza». In questa occasione appaiono un boscaiolo e una bambina da un fiabesco retroterra. Ma Fortini spoglia questi momenti di amplificazioni simboliche e per questo le domande che pongono diventano ancor più pungenti, non facilmente decriptabili: «C’era nell’aria del pomeriggio ventoso / qualcosa che non intendevo, che non sapevo. Comparvero / una donna e una bambina e mi vennero incontro / dal bosco. Sottobraccio la bambina / aveva un piccolo cestello tutto colmo di mirtilli. / La donna invece non la ricordo. Vorrei / che questo fosse tutto». «La pretesa – chiosa Lenzini – che non vi siano sensi ulteriori, allegorie da decifrare, progetti da perseguire, è davvero una strada percorribile per il soggetto?». L’incontro non viene più elevato a allegoria e proprio per questa sua nudità rende più dubbioso il cammino. E misterioso l’incedere verso la fine.