L’Africa fantasma è un libro che ha attraversato i
cambiamenti di statuto delle discipline antropologiche
assumendo, di volta in volta,
i connotati di falso, di contraffatto in relazione con le
prospettive “scientifiche”
degli studi etnologici e della descrizione etnografica
della realtà con cui si entra
a contatto, per assumere poi
quelli di opera di riferimento
per un approccio riflessivo e
di una vocazione letteraria
e narrativa dell’etnografia
pensata anche in senso artistico. Il libro nasce come
diario della Missione DakarGibuti, redatto da Leiris dal
1931 al 1933. Com’è noto
la Missione è stata una delle
pietre miliari dell’etnologia
francese. Evento fondativo,
essa si situa in un periodo
di grande rinnovamento ed
è in relazione con importanti e innovativi progetti
museografici. “Organizzata
dall’Institut d’ethnologie de
l’Université de Paris e dal
Muséum national d’histoire
naturelle, affidata alla responsabilità di Griaule, la
missione Dakar-Gibuti partì
nel maggio del 1931 da Bordeaux per un viaggio che
avrebbe attraversato l’Africa in diagonale, toccando
Senegal, Sudan francese,
Costa d’Avorio, Alto Volta,
Niger, Dahomey, Ciad, Medio Congo, Congo belga,
Ubanghi-Shari, Togo, Camerun, Nigeria, Costa francese
della Somalia, Sudan angloegiziano, Abissinia. […]
Avrebbero compiuto l’intero
viaggio Marcel Griaule, assistente all’École des Hautes
Études, etnografo e linguista, col ruolo di capo missione; Michel Leiris, ‘uomo di
lettere’, allievo dell’Institut
d’ethnologie, col ruolo di
segretario-archivista, e incaricato di inchieste sulle ‘società infantili, società senili,
istituzioni religiose’; Marcel Larget, incaricato delle
osservazioni naturalistiche;
Eric Lutten, incaricato della
parte tecnologica e delle riprese cinematografiche; André Schaeffner, musicologo,
incaricato delle osservazioni
etnomusicologiche e delle
registrazioni musicali. Vi
avrebbero invece partecipato
solo per alcuni periodi Jean
Mouchet, incaricato della ricerca linguistica, Jean
Moufle, aiuto nelle inchieste
etnografiche, Gaston-Louis
Roux, pittore, […] Deborah
Lifchitz, linguista, […] Abel
Favre, geografo e naturalista, Oukhtomsky, amico
di Rivière, il cui ruolo non
era definito […]” (Fiore, p.
676). Il libro uscì in Francia nel 1934 per l’editore
Gallimard di Parigi con una
dedica a Marcel Griaule,
il quale, però, lo sconfessò
appena uscito, ritenendolo
compromettente per gli studi
scientifici etnografici. L’opera, infatti, fece scandalo
nell’ambiente degli studiosi:
Marcel Mauss la ritenne una
poco seria produzione letteraria e gli eventi negativi
culminarono con la messa al
macero di tutte le copie nel
1941, sotto il nazismo.
Lo stretto rapporto tra etnologia e surrealismo in
Francia è stato messo in
evidenza e ritenuto elemento caratterizzante la cultura
antropologica degli anni ’30.
La figura di Michel Leiris
si connota esplicitamente e
ampiamente entro l’alveo
culturale del surrealismo parigino caratterizzato da posizioni fortemente antagoniste
e di avversione nei confronti
della cultura borghese e del
sistema economico capitalistico. Egli stesso lo scrive in
più occasioni per motivare la
decisione di partecipare alla
Missione in Africa.
In Italia il libro è stato pubblicato per la prima volta nel
1984 dall’editore Rizzoli. La
nuova edizione di cui si parla
conserva la traduzione della
prima edizione italiana e il
glossario, ed è arricchita da
ulteriori apparati documentari, tra cui le note esplicative
del curatore francese Jean
Jamin e le lettere inviate
dall’autore alla moglie durante il viaggio. Soprattutto
contiene per la prima volta
quaranta fotografie dell’archivio della Missione che
impreziosiscono in maniera
sostanziale questa necessaria
nuova edizione di un libro tra
i più incisivi della letteratura
etnologica europea. Per fare
qualche esempio che possa
rendere conto della ricchezza
documentaria in grado di scaturire dalla messa in relazione multimediale delle diverse
fonti, fotografica e diaristica,
ho provato a rintracciare riferimenti nel testo a qualcuna
delle foto. L’immagine 8 riproduce alcune persone mascherate e la didascalia rinvia
a una cerimonia funebre dogon che viene descritta nel
diario, tra le pagine 133 e seguenti, con una ricchezza di
dettagli e di articolazioni, ma
soprattutto con un’intimità di
relazione con il campo e con
le persone a vario titolo implicate: “dopo pranzo, aspetto
Ambara per il sacrificio, naturalmente non viene. Infastidito, comincio a fare qualcosa, finché non sentiamo tutti
delle risa simili a quelle delle
maschere; nessun dubbio, il
sacrificio è cominciato. Tanto
più che sta piovendo molto
forte, il che significa che il sacrificio sta funzionando bene.
Vado con Lutten e Mamadou
Kèita che porta il Kinamo e
una macchina fotografica” (p.
140). Un altro esempio può
essere quello della foto 16
che ritrae una donna etiope
Asammanètch con cui Leiris
intrattenne un lungo e denso
periodo di relazione etnografica con il suo personale stile
descrittivo che mette insieme
dati etnografici, considerazioni personali e inconsuete
riflessioni sulla persona che
ha davanti. Alle pagine 572
e seguenti la presenza della
donna, della quale se ne apprezza la figura elegante, ricorre di continuo per diverse
occasioni: “in mattinata, arrivo inatteso di Asammanètch,
la donna magra di Darasghié.
È sempre così alta, secca,
butterata e bella, con una
faccia di avara che mette il
topicida nella minestra del
marito. Viene dall’infermeria
del campo, dove si è fatta fare
un’iniezione (probabilmente
antisifilitica) ed è insieme a
una ragazzina che è sua nipote.
Ha male dappertutto. Si lamenta che lo zar le abbia
sempre impedito di avere
figli. Mi trova ringiovanito
e imbellito da quando mi
ha visto a Darasghié, dice
che sono molto ‘seltun’ perché faccio servire tre caffè
e, secondo le regole, faccio
bruciare dell’incenso. Basta
questo a farmi felice…” (p.
572).
Il corredo fotografico è vario e complesso mettendo
insieme immagini dei ricercatori intenti in varie attività
di rilevamento – soprattutto
Griaule vi compare spesso
– insieme a fotografie più
classicamente etnografiche e
documentarie. Sorprendenti sono i numerosi ritratti,
tutt’altro che immagini antropometriche, al contrario
elementi visivi di un rapporto di scambio tra culture, vere e proprie “zone di
contatto” di un’esperienza
scientifica, culturale, esistenziale, artistica.
Seppure calata nel contesto
di politica coloniale della
Francia, la Missione DakarGibuti di cui L’Africa fantasma è l’esito polimorfo e inquieto e ancora oggi foriero
d’impreviste sollecitazioni,
lascia trasparire con chiarezza un rinnovamento dell’approccio etnografico che darà
rivoluzionari frutti sia sotto
il profilo più specifico della disciplina antropologica
che sotto quello più ampio
dell’arricchimento culturale
della società francese ed europea.