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Georg Trakl Gli ammutoliti Lettere 1900-1914 230 pp. Quodlibet, euro 16,50
 
A cinque anni, in età prescolare, Georg Trakl – bambino enigmatico, attratto dalla magia dell’acqua – si gettò in un torrente pronto ad annegarci dentro, e si salvò. Doveva già saper leggere e scrivere quando, appena più grandicello, si buttò a terra davanti a un cavallo imbizzarrito allo scopo di fermarlo, e lo fermò. Venticinquenne, capace ormai di maneggiare la penna con destrezza, con la stessa “sicurezza micidiale”, racconta un compagno di viaggio, sapeva condurre una slitta sulla neve: lanciato nella notte invernale giù dalle cime austriache “attraverso una stretta serpentina tra i dirupi e le vaste foreste buie”. Il racconto dello spericolato rientro a casa dopo una serata di bevute
con il poeta scalmanato e “taciturno, giocoso, sonnambolico” è di tale Joseph Oberkofler: uno dei conoscenti incrociati nel corso fulmineo di una vita (1887-1914) che, testimoni delle inquietudini e delle prodezze del giovane Georg, dovettero restarne ammutoliti. Zittiti dalle sue provocazioni. Al ginnasio, insofferente della scuola, traduceva solo la prima e l’ultima riga della versione di greco, a costo di farsi bocciare. Laureato, impiegato come farmacista militare all’Imperialregio Ministero dei Lavori Pubblici, sparì dall’ufficio due ore dopo l’assunzione, a costo di farsi licenziare. Spiazzati dal suo nervosismo e dai suoi disagi. “E’ svitato” si diceva guardandolo camminare per ore, anche di notte. “E’ timido”, notando che non tollerava la presenza di un uomo vis-à-vis. “E’ malato”, vedendo che sul treno non sapeva star seduto, che non si fidava a salire in ascensore, che non poteva, “semplicemente non poteva”, parlare al telefono. Sconvolti dai suoi eccessi: nel sesso, l’alcol, le droghe cui aveva iniziato la bellissima sorella Grete, trascinata nel vortice dell’ebbrezza tossica e della passione incestuosa, e da cui volonterose diete a base di “acqua minerale, limonata, latte e sigarette senza nicotina non poterono redimerlo, né controbilanciare la porzione di cocaina che lo uccise ventiseienne a Cracovia. Impressionati però anche solo dalla sua figura inerte: il corpo massiccio “come un orso”, il volto contratto “come un’immagine lignea, ecce homo”, la “voce fragorosa come tuono lieve”. Non occorreva che, per dare espressione a tutta la sua persona, pronunciasse parole con intenzione comunicativa. Anche quando parlava per rivolgersi a qualcuno, “monologava: faceva pensare a una solitudine monacale”. Della stessa inaccessibile lontananza avrebbero preso atto i lettori eccellenti dei suoi versi. Heidegger, che saccheggiò le sue poesie col gesto di chi affonda le mani in un arcano. Wittgenstein, che ammise: “Non lo capisco, ma il suo tono mi piace”. Rilke, che si riconobbe in lui, ma disse di poterglisi accostare “solo col viso schiacciato sul vetro”. Significativo che la raccolta delle sue lettere – scritte in solitudine inespugnabile (da Vienna, Salisburgo, Innsbruck), spedite a una schiera di “Ammutoliti”, redatte come caparbi soliloqui di lamento (“Mi sono rintanato e ho chiuso occhi e orecchi”, “Spesso l’aurato vero si mostra a una soave follia”) e firmate in tutta sincerità con un “lamento” (è il significato della parola “Trakl”: querulo verso di tortora) – si apra con un’illeggibile cartolina dalla Cina. Datata “Amoy” – l’odierna Xiamen – nel 1900, inviata da un ammiratore sconosciuto e scritta in volapük, la lingua ottocentesca inventata a tavolino rimescolando le lingue europee, recita: “Ko glids e dans as flen fagik”. Qualcosa come: “Tanti saluti da un amico lontano” che, non potendo avvicinarsi al destinatario con la faccia schiacciata sul vetro, storpiava, sfigurava, rendeva irriconoscibili le parole con cui raggiungerlo dall’Oriente.