Ci sono stati alcuni
momenti, nel corso del Novecento, in cui la pratica scenica
è sembrata prossima a realizzare almeno in parte la grande
utopia di Antonin Artaud, che
col suo "teatro della crudeltà",
teorizzato tra la fine degli anni
Venti e l'inizio del decennio
successivo, aveva indicato la
via verso territori inesplorati
e una concezione completamente nuova della messinscena, del suo messaggio e dei
suoi contenuti.
Artaud pensava in particolare a un teatro finalmente libero dalla psicologia e più vicino ai dati elementari della vita, e soprattutto immaginava
spettacoli che si sarebbero abbattuti come una "peste" sul
pubblico, minando alla base il
gretto e comodo conformismo
delle élites culturali e fornendo una lettura alternativa dell'esistente, nella consapevolezza che «non siamo liberi» e
«il cielo può sempre cadere
sulla nostra testa».
Il teatro di Brecht, per
quanto fortemente ideologizzato e mosso da intenti didattici, ha costituito ad esempio
un momento di notevole vicinanza all'utopia di Artaud, e il
medesimo discorso vale per
tutte le avanguardie che in seguito, seppur con scopi e finalità differenti, hanno ripensato in maniera radicale le forme
e i contenuti della scrittura e
della rappresentazione teatrale.
Teatro come pestilenza
Ci sono stati tuttavia due momenti di massima vicinanza,
in particolare sul piano dei
contenuti e dell'idea del teatro
inteso come una "pestilenza"
e una lettura radicalmente altra della realtà.
Il primo è ravvisabile nella
breve ma intensa stagione degli "Angry Young Men", i "giovani arrabbiati" che in Inghilterra, nella seconda metà degli
anni Cinquanta, portarono sui
palcoscenici tutta la propria
rabbia e il proprio rifiuto nei
confronti di una società imbalsamata, che si rispecchiava
in un teatro ancora fermo alle
dinamiche sociali dell'anteguerra e assolutamente incapace di indicare nuove prospettive. Il secondo momento,
caratterizzato soprattutto da
una profonda riflessione sullo
specifico del linguaggio teatrale - e più in generale sul linguaggio come potenziale e
spesso effettivo strumento di
potere e coercizione -, è invece
individuabile nella vivacissima scena drammaturgica austriaca della seconda metà degli anni Sessanta e nelle opere
del suo massimo rappresentante, l'enfant prodige e ai
tempi giovanissimo Peter
Handke, che tra il 1966 e il
1970, non ancora trentenne,
diede alle stampe cinque cosiddette "pièces vocali" divaga
ascendenza beckettiana ma
segnate da una cifra stilistica
molto personale e non priva di
una spiccata originalità. Si dice spesso, naturalmente in
maniera provocatoria e sul filo
del paradosso (ma un paradosso che contiene anche una
discreta dose di verità), che il
teatro inteso come sperimentazione e re-invenzione della
realtà sul palcoscenico è finito
con Beckett.
Muovendosi sul filo del medesimo paradosso, si può aggiungere che il teatro, almeno
come sperimentazione linguistica, è forse finito con questi
testi del giovanissimo Handke, perché in seguito nessuno si è spinto tanto a fondo e
ha messo così radicalmente in
questione l'essenza stessa del
linguaggio teatrale, il suo senso e le sue potenzialità comunicative.
Perfezione priva di anima
Men che meno, spiace dirlo, lo
stesso Handke, che ancora negli anni Settanta e in parte del
decennio successivo, con le
celebri e giustamente celebrate sceneggiature per i film di
Wim Wenders (in particolare
Alice nelle città, lo straordinario Falso movimento e Il
cielo sopra Berlino) e le prime nonché originalissime
prove narrative, aveva perseguito con estrema coerenza e
un'altissima qualità di scrittura le idee innovative e per molti versi rivoluzionarie espresse nei testi teatrali degli esordi.
L'idea, in particolare,
espressa chiaramente nella
definizione "pièce vocale",
che lo spettacolo teatrale potrebbe e anzi dovrebbe fornire
un'immagine del mondo fatta
non già di immagini, ma piuttosto di parole, di fonemi che
contengono il mondo stesso e
quindi lo esprimono. Non come immagine, ma appunto come idea.
Poi, come talora succede a
chi scrive molto bene (e Handke, che è un narratore puro,
scrive davvero benissimo, con
uno stile che in tedesco si definisce "gemeistert", ricercato e
sorvegliatissimo, ma insieme
arioso e di squisita limpidezza), ha cominciato a specchiarsi in maniera un po' narcisistica nella propria perfezione di stile, con una ricerca
spesso eccessiva e francamente un po' arida e fine a sé stessa
del celebre "mot fuste" flaubertiano. E' principalmente a
questo Handke che è stato assegnato il Premio Nobel, non
certo al giovane e coraggioso
eversore delle pièces vocali.
Anche la sua recente collaborazione con Wenders per la
versione cinematografica del
testo scenico "I bei giorni di
Aranjuez", che ha visto la coppia riformarsi dopo circa un
trentennio, si è risolta in definitiva in un elegantissimo e ricercato esercizio di stile, formalmente perfetto, ma privo
di nerbo e di anima.
Ci sarebbe infine da parlare
delle sue discutibili prese di
posizione a proposito della
guerra civile nella ex Jugoslavia, che sono state oggetto di
molte critiche spesso strumentali, anche e soprattutto
dopo il conferimento del Nobel. Ma questo, almeno in parte, è un altro discorso, molto
spinoso e complicato, perché
riguarda non solo (si vorrebbe
dire: non tanto) lo scrittore
austriaco e le sue tesi, senz'altro da dibattere e in seguito
(ma solo in seguito) da rigettare, ma anche - e in maniera se
mai possibile ancora più grave
- il sempre più diffuso "tradimento dei chierici" e l'opportunismo corrivo e ipocrita che
in molte cerchie intellettuali è
ormai da troppo tempo una
seconda natura. Peter Handke, che si sta ormai avvicinando alla soglia degli ottant'anni, è sicuramente uomo e
scrittore non facile, non privo
di ombre e difetti, e sulla questione della ex Jugoslavia ha
preso un colossale abbaglio.
Ma altrettanto sicuramente
non è un ipocrita e nemmeno
un opportunista, soprattutto
nella formulazione e articolazione dei pensieri e delle opinioni.
Sentore di archeologia
L'editore Quodlibet, che negli
scorsi anni aveva già pubblicato il racconto-sceneggiatura
poi portato sugli schermi da
Wenders, ha recentemente
proposto gli esordi teatrali di
Handke in un volume che
prende giustamente il titolo
dalla pièce più famosa, riuscita e provocatoria, Insulti al
pubblico, che oltre alla "crudeltà" di Artaud si rifà più o
meno apertamente allo "straniamento" di Brecht, con la
sola ma sostanziale differenza
costituita dal fatto che non qui
non c'è nulla che corrisponde
alle consuete attese del pubblico: nessuna azione, nessun
dramma, nessuno svolgimento. Il pubblico viene invece insultato dagli attori - dalle voci
degli attori - per la sua passività, la sua acquiescenza, la sua
necessità di sentirsi al sicuro
dietro la cosiddetta "quarta
parete". Si tratta davvero, con
ogni probabilità, del punto di
massimo avvicinamento all'utopia di Artaud e di uno degli apici del teatro del secondo
Novecento.
Ma oggi, a distanza di mezzo
secolo, non si può negare che il
tutto abbia un sentore quasi di
archeologia. E che, forse, siano proprio questi il vero "straniamento" e la vera "crudeltà". Viene quindi da pensare
che avesse ragione uno scettico realista come Ennio Flaiano quando, pressappoco nello
stesso periodo degli esordi di
Handke e con uno dei suo consueti paradossi/non paradossi, disse che l'autentico teatro
della crudeltà - pestilenziale,
tragicomico e farsesco - andava cercato fuori dai teatri, nell'eterna pagliacciata e baracconata della "vita reale".