Recensioni / Peter Handke 1966. Il futuro Nobel insulta il pubblico

Ci sono stati alcuni momenti, nel corso del Novecento, in cui la pratica scenica è sembrata prossima a realizzare almeno in parte la grande utopia di Antonin Artaud, che col suo "teatro della crudeltà", teorizzato tra la fine degli anni Venti e l'inizio del decennio successivo, aveva indicato la via verso territori inesplorati e una concezione completamente nuova della messinscena, del suo messaggio e dei suoi contenuti.
Artaud pensava in particolare a un teatro finalmente libero dalla psicologia e più vicino ai dati elementari della vita, e soprattutto immaginava spettacoli che si sarebbero abbattuti come una "peste" sul pubblico, minando alla base il gretto e comodo conformismo delle élites culturali e fornendo una lettura alternativa dell'esistente, nella consapevolezza che «non siamo liberi» e «il cielo può sempre cadere sulla nostra testa».
Il teatro di Brecht, per quanto fortemente ideologizzato e mosso da intenti didattici, ha costituito ad esempio un momento di notevole vicinanza all'utopia di Artaud, e il medesimo discorso vale per tutte le avanguardie che in seguito, seppur con scopi e finalità differenti, hanno ripensato in maniera radicale le forme e i contenuti della scrittura e della rappresentazione teatrale.

Teatro come pestilenza
Ci sono stati tuttavia due momenti di massima vicinanza, in particolare sul piano dei contenuti e dell'idea del teatro inteso come una "pestilenza" e una lettura radicalmente altra della realtà.
Il primo è ravvisabile nella breve ma intensa stagione degli "Angry Young Men", i "giovani arrabbiati" che in Inghilterra, nella seconda metà degli anni Cinquanta, portarono sui palcoscenici tutta la propria rabbia e il proprio rifiuto nei confronti di una società imbalsamata, che si rispecchiava in un teatro ancora fermo alle dinamiche sociali dell'anteguerra e assolutamente incapace di indicare nuove prospettive. Il secondo momento, caratterizzato soprattutto da una profonda riflessione sullo specifico del linguaggio teatrale - e più in generale sul linguaggio come potenziale e spesso effettivo strumento di potere e coercizione -, è invece individuabile nella vivacissima scena drammaturgica austriaca della seconda metà degli anni Sessanta e nelle opere del suo massimo rappresentante, l'enfant prodige e ai tempi giovanissimo Peter Handke, che tra il 1966 e il 1970, non ancora trentenne, diede alle stampe cinque cosiddette "pièces vocali" divaga ascendenza beckettiana ma segnate da una cifra stilistica molto personale e non priva di una spiccata originalità. Si dice spesso, naturalmente in maniera provocatoria e sul filo del paradosso (ma un paradosso che contiene anche una discreta dose di verità), che il teatro inteso come sperimentazione e re-invenzione della realtà sul palcoscenico è finito con Beckett.
Muovendosi sul filo del medesimo paradosso, si può aggiungere che il teatro, almeno come sperimentazione linguistica, è forse finito con questi testi del giovanissimo Handke, perché in seguito nessuno si è spinto tanto a fondo e ha messo così radicalmente in questione l'essenza stessa del linguaggio teatrale, il suo senso e le sue potenzialità comunicative.

Perfezione priva di anima
Men che meno, spiace dirlo, lo stesso Handke, che ancora negli anni Settanta e in parte del decennio successivo, con le celebri e giustamente celebrate sceneggiature per i film di Wim Wenders (in particolare Alice nelle città, lo straordinario Falso movimento e Il cielo sopra Berlino) e le prime nonché originalissime prove narrative, aveva perseguito con estrema coerenza e un'altissima qualità di scrittura le idee innovative e per molti versi rivoluzionarie espresse nei testi teatrali degli esordi.
L'idea, in particolare, espressa chiaramente nella definizione "pièce vocale", che lo spettacolo teatrale potrebbe e anzi dovrebbe fornire un'immagine del mondo fatta non già di immagini, ma piuttosto di parole, di fonemi che contengono il mondo stesso e quindi lo esprimono. Non come immagine, ma appunto come idea.
Poi, come talora succede a chi scrive molto bene (e Handke, che è un narratore puro, scrive davvero benissimo, con uno stile che in tedesco si definisce "gemeistert", ricercato e sorvegliatissimo, ma insieme arioso e di squisita limpidezza), ha cominciato a specchiarsi in maniera un po' narcisistica nella propria perfezione di stile, con una ricerca spesso eccessiva e francamente un po' arida e fine a sé stessa del celebre "mot fuste" flaubertiano. E' principalmente a questo Handke che è stato assegnato il Premio Nobel, non certo al giovane e coraggioso eversore delle pièces vocali. Anche la sua recente collaborazione con Wenders per la versione cinematografica del testo scenico "I bei giorni di Aranjuez", che ha visto la coppia riformarsi dopo circa un trentennio, si è risolta in definitiva in un elegantissimo e ricercato esercizio di stile, formalmente perfetto, ma privo di nerbo e di anima.
Ci sarebbe infine da parlare delle sue discutibili prese di posizione a proposito della guerra civile nella ex Jugoslavia, che sono state oggetto di molte critiche spesso strumentali, anche e soprattutto dopo il conferimento del Nobel. Ma questo, almeno in parte, è un altro discorso, molto spinoso e complicato, perché riguarda non solo (si vorrebbe dire: non tanto) lo scrittore austriaco e le sue tesi, senz'altro da dibattere e in seguito (ma solo in seguito) da rigettare, ma anche - e in maniera se mai possibile ancora più grave - il sempre più diffuso "tradimento dei chierici" e l'opportunismo corrivo e ipocrita che in molte cerchie intellettuali è ormai da troppo tempo una seconda natura. Peter Handke, che si sta ormai avvicinando alla soglia degli ottant'anni, è sicuramente uomo e scrittore non facile, non privo di ombre e difetti, e sulla questione della ex Jugoslavia ha preso un colossale abbaglio. Ma altrettanto sicuramente non è un ipocrita e nemmeno un opportunista, soprattutto nella formulazione e articolazione dei pensieri e delle opinioni.

Sentore di archeologia
L'editore Quodlibet, che negli scorsi anni aveva già pubblicato il racconto-sceneggiatura poi portato sugli schermi da Wenders, ha recentemente proposto gli esordi teatrali di Handke in un volume che prende giustamente il titolo dalla pièce più famosa, riuscita e provocatoria, Insulti al pubblico, che oltre alla "crudeltà" di Artaud si rifà più o meno apertamente allo "straniamento" di Brecht, con la sola ma sostanziale differenza costituita dal fatto che non qui non c'è nulla che corrisponde alle consuete attese del pubblico: nessuna azione, nessun dramma, nessuno svolgimento. Il pubblico viene invece insultato dagli attori - dalle voci degli attori - per la sua passività, la sua acquiescenza, la sua necessità di sentirsi al sicuro dietro la cosiddetta "quarta parete". Si tratta davvero, con ogni probabilità, del punto di massimo avvicinamento all'utopia di Artaud e di uno degli apici del teatro del secondo Novecento.
Ma oggi, a distanza di mezzo secolo, non si può negare che il tutto abbia un sentore quasi di archeologia. E che, forse, siano proprio questi il vero "straniamento" e la vera "crudeltà". Viene quindi da pensare che avesse ragione uno scettico realista come Ennio Flaiano quando, pressappoco nello stesso periodo degli esordi di Handke e con uno dei suo consueti paradossi/non paradossi, disse che l'autentico teatro della crudeltà - pestilenziale, tragicomico e farsesco - andava cercato fuori dai teatri, nell'eterna pagliacciata e baracconata della "vita reale".