Recensioni / Viviamo di identità (la nostra) escludendo l'altro

C'è sempre qualcuno di troppo quando è in gioco l'identità. La propria. E ci sono sempre troppo-poco spazio e troppo-poche risorse a disposizione, quando sono in ballo il territorio e il benessere. I miei. È così che si costruisce il luogo del e per «l'altro», cui quest'ultimo deve adattarsi e nel quale può tranquillamente mettersi a proprio disagio! Sì, perché il luogo-dell'-alterità ha l'obbligo d'essere costitutivamente angusto e scomodo, in modo tale che chi vi si trovi collocato per decisione altrui abbia chiara e nitida la coscienza di non essere se non appunto solo l'altro e di doverne mantenere salda e duratura la memoria, per non pretendere d'essere diversamente, visto che la dimensione dell'identità è già ampiamente occupata proprio da chi è impegnato per sé nella (ri)produzione continua dell'alterità.
Un circolo corrotto, più che vizioso, che nella filosofia morale, politica e sociale trova un preciso concetto che serve a definirlo, ovvero l'«esclusione», termine che attiene a una condizione del tutto paradossale, cioè il fatto di poter chiudere-fuori, circoscrivere e murare qualcuno nell'aperto, proprio lì dove al contrario si sarebbe dovuto sperimentare la libertà, respirare l'infinito, esperire l'illimitato. Se, però, il «fuori» diventa incoerentemente il luogo della reclusione «ex-clusiva», allora proprio la sua esteriorità distesa si destina a trasformarsi in una mano al collo che stringe per soffocare o al contrario nel deserto sconfinato, in cui si opera lo smarrimento, si realizza la disappartenenza a sé e ci si muove a vuoto secondo la formula dell'erranza delirante, in virtù della quale ogni spostamento, anche prodotto con grande fatica e sforzo, in effetti lascia immobili nel punto in cui si era prima: nell'eterno e smisurato fuori-dall'-identità. Sei-Nessuno, quindi!
La dinamica di questo processo tormentoso è oggetto della sensibilità, acuta e fasciante, di Furio Semerari, docente di Filosofia morale ed Etica della comunicazione presso l'Università di Bari, ampiamente espressa nel libro a sua cura intitolato L'esclusione. Analisi di una pratica diffusa (Quodlibet, Macerata 2020, 174 pp., euro 18), nel quale trascina con sé studiosi come E. Borgna, D. Discipio, G. Falcicchio, A. Lopedota, C. Mitola, V. Vitiello, i cui ponderati interventi consentono al tema trattato di smerigliarsi in cristalli disciplinari differenti, in grado di restituire l'immagine eterogenea e la densità composita di un fenomeno irriducibile a un solo campo di studio.
Il testo, oltre a presentare puntuali considerazioni - socio-psichiatriche, pedagogico-interculturali, teologico-politiche, psicologico-pratiche, socio-relazionali e filosofico-teoretiche -, inevitabilmente suscita ulteriori quesiti, non aggirabili, attorno al tema rovente dell'esclusione. Come si perviene alla legittimazione dei soggetti in grado di decidere che propri simili - e non solo loro - siano indegni dell'appartenenza a una determinata gruppalità o all'accesso a una serie di diritti, di cui solo alcuni si ritiene possano godere? Se esiste in effetti un principio di esclusione, in che modo è possibile elaborare un diritto resistente a non essere esclusi o un dovere categorico a non escludere?
Se nella natura stessa delle regole su cui si fonda la vita di una qualsiasi comunità, a maggior ragione statuale, è implicita la pratica dell'esclusione identificativa, è doveroso pensare conseguentemente a una loro abolizione a favore di un'utopica società anarchica o è sufficiente un loro temperamento, che però non eliminerebbe la loro essenza selettiva? Domande che, in attesa di risposte etiche, pretendono dì essere liberate da un inibente politicamente corretto.