Recensioni / Quodlibet pubblica Eric Marty con il suo Renè Char e l’engagement estatico. Una profonda analisi su uno dei grandi poeti del Novecento.

Tra i più grandi poeti del Novecento, un eccelso, René Char ha fatto parte per pochi anni del Surrealismo intraprendendo poi un percorso totalmente personale, anche se è stato in relazione intellettuale e di amicizia con grandi personaggi del Novecento francese e non solo, tra cui Camus, Bataille, Blanchot, Celan. Fu durante la Seconda guerra mondiale che fu coinvolto personalmente nella lotta di Resistenza combattendo con il mitico nome di Capitaine Alexandre. È l’inizio del 1941, René Char (L’Isle-sur-la-Sorgue, 14 giugno 1907 – Parigi, 19 febbraio 1988) sorvegliato dalla polizia di Vichy lascia la sua città natale, L’Isle-sur-la-Sorgue, nella Val Chiusa e raggiunge fuggiasco il villaggio di Céreste in Provenza. È qui che, dopo aver stretto contatti con i maquisard1 della zona, entra nella Resistenza e diviene, con il nome di battaglia di Capitain Alexandre, capo della SAP (Section Atterrissage Parachutage) nel dipartimento di Durance. Il suo gruppo, oltre alla presa in carico dei refrattari della STO2 (Service du Travail Obligatoire), ha il compito di realizzare sabotaggi, imboscate ed evasioni, liquidare spie e traditori, trovare spazi e luoghi per l’atterraggio degli aerei alleati e recuperare quanto viene paracadutato, armi, viveri, munizioni.
È dal contesto della lotta di liberazione contro l’aggressione hitleriana che provengono le 237 note che compongono I fogli d’Ipnos, documento eccezionale ed esemplare di battaglia e di poesia. Non è solo la lotta di resistenza del Capitain Alexandre contro il nazismo condotta con il revolver in pugno, che trapela da queste pagine, ma anche quella di un individuo che difende intra-muros il proprio spazio vitale dall’aggressione dei demoni di ghiaccio dell’ipocrisia e della rassegnazione: “il punto d’oro della lampada a noi sconosciuta che tiene desti il coraggio e il silenzio”.
È bene sapere che proprio attraverso una fine lettura poetica e filosofica della sua opera (in particolare i Fogli d’Ipnos), Éric Marty nel libro dal titolo L’engagement estatico. Su Renè Char uscito da Quodilibet (pp.80, 2020) affronta la delicata questione dell’engagement del poeta -già, l’impegno- relativamente agli anni tristi dell’occupazione nazista, che si realizza con modalità ben diverse dall’impegno di stampo surrealista o sartriano. Ne emerge una posizione originalissima messa in atto da Char in questo periodo di guerra in cui sceglie di non pubblicare nulla anche se non smette di scrivere e di riflettere sulla poesia. Si tratta per lui di affrontare una situazione a tal punto determinata dal “terrore” che risulta “inconcepibile” e “innominabile”: il mondo è uscito dai binari ordinari della storia per cui non lo si può affrontare con i termini del discorso comune. Per gli stessi motivi anche i meccanismi noti di opposizione o contrasto si rivelano, in questo caso, del tutto inefficaci. L’unica possibilità è data da un “rovesciamento” della situazione operato grazie ad una poesia che articola i due movimenti di quello che Marty chiama engagement estatico: l’angoscia e l’estasi. Eric Marty con una scrittura limpidissima ripropone non solo un nuovo commento ai “Fogli d’Hypnos”, ma nel saggio “L’engagement estatico” affronta un’affinità elettiva di straordinaria emozione e sensibilità, con in più l’indicazione che la poesia è soprattutto vita, azione, pulsazione, respiro.
A tal proposito ho fatto mio e pertinente al pensiero di Renè Char quanto ha scritto a suo tempo Giorgio Caproni ( Il testo è tratto da, René Char, Poesia e prosa, cura e traduzione di Giorgio Caproni, Milano, Feltrinelli, “Biblioteca di letteratura”, 1962. Il libro riproduce integralmente l’edizione Poèmes et prose choisis [Poesie e prose scelte], Paris, Gallimard, 1957, con in più la versione completa della sezione Feuillets d’Hypnos [Fogli d’Hypnos], dal volume Fureur et Mystère [Furore e mistero], Paris, Gallimard, 1948, tradotta da Vittorio Sereni).
“Perché ho tradotto, o cercato di tradurre nonostante i rischi, René Char? Quale simpatia irresistibile mi ha spinto al tentativo – il più delle volte disperato, almeno per i miei mezzi – d’un’imitazione italiana? Dico imitazione perché mi rendo conto che una restituzione perfetta rimane sempre, quando si tratta di poesia traslata, una chimera, non fosse che per l’inevitabile usura che le parole, come le monete, subiscono attraverso il cambio. Perché, dunque? Sapessi rispondere, saprei definire la poesia di Char: che fra tutte le “poesie” da me lette ed amate in questi ultimi anni, è la più lontana dall’ “idea di poesia” che ciascuno di noi (per tradizione, per educazione, per abitudine) possiede, e la più stretta al cuore della poesia stessa, dove la letteratura o la poesia-che-si-sapeva-già non porgono più alcun soccorso al lettore, e questi, coinvolto da capo a piedi in quei bouts d’existence incorruptibles che sono i poèmes, rimane perfettamente solo a sentirsi investito d’un potere – d’interiore libertà: d’uno slancio vitale e d’un coraggio morale – che per un istante egli crede di ricevere femminilmente dall’esterno, mentre poi s’accorge che tale ricchezza era già in lui, sonnecchiante ma presente, come se il poeta altro non avesse fatto che risvegliarla, non inventando ma scoprendo; e quindi suscitando un moto, più che d’ammirazione, di gratitudine. Ho sottolineato i tre vocaboli non per ammiccare, ma perché possono essere, penso, tre piccoli sesamo, offerti dallo stesso Char. Quand on a mission d’éveiller – scrive in uno dei suoi lampeggianti aforismi, – on commence par faire sa toilette dans la rivière. [Quando la nostra missione è quella di svegliare, si comincia col lavare se stessi nel fiume.]
E altrove: Celui qui invente, au contraire de celui qui découvre, n’ajoute aux choses, n’apporte aux êtres que des masques, des entre-deux, une bouillie de fer. [Colui che inventa, diversamente da colui che scopre, non aggiunge alle cose, non apporta agli esseri che delle maschere, sentieri a metà, un boccone di ferro.]
Ma ancora: La poésie est à la fois parole et provocation silencieuse, désesperée, de notre être-exigeant pour la venue d’une réalité qui sera sans concorrente. Imputrescibile celle là. Impérissable, non; car elle court les dangers de tous. Mais la seule qui visiblement triomphe de la mort matérielle. Telle est la Beauté apparue dès les premiers temps de notre coeur, tantôt dérisoirement conscient, tantôt lumineusement averti. [ La poesia è, di volta in volta, parola e provocazione silenziosa, disperata, del nostro desiderare una realtà che non teme eguali. Immarcescibile. Imperitura, no; perché corre i rischi di tutti. Ma la sola che visibilmente trionfa della morte materiale. Tale la Bellezza: apparsa fin dai primi tempi del nostro cuore, ora risibilmente cosciente, ora luminosamente attento.]. E infine: La poésie me volera ma mort. [La poesia mi ruberà la mia morte]. È appunto per questa ritrovata missione del poeta come suscitatore di vita (quindi di rivolta ininterrotta: non tramite la concione in versi, secondo la più banale formula dell’engagement, ma tramite la vita stessa) che nell’angustiato e depresso mondo del dopoguerra René Char – la cui opera, non esitò a scrivere Albert Camus, è quanto di più sorprendente ci abbia dato la poesia francese dopo le Illuminations e gli Alcools – è forse l’unica voce costruttiva, e vorrei dire, in senso proprio, edificante, nel cuore del generale sfacelo. È la voce viva e quasi magica, nourriture semblable à l’anche d’un haut-bois [nutrimento simile all’ancia di un oboe], d’un datore di speranza: d’un fautore acerrimo di libertà, nel più vasto e limpido senso laico. E nel più umano. D’un umanesimo che pianta le radici nello stesso suolo d’origine del poeta (L’Isle-sur-la-Sorgue, Valchiusa, circondario d’Avignone, dove Char è nato nel 1907) e che trae la sua maggior forza di vivo alimento proprio dalla catastrofe della guerra e dall’oppressione nazista, duramente sofferta e ormai sfondo morale del poeta, più d’ogni altro fratello dei suoi fratelli nel cristallo del proprio amore infinito. Sfondo, insieme con quello della lucente bellezza della terra (Char ha saputo ben fare sa toilette dans la rivière: e ogni sua parola è un essere vivente, uomo o albero o fiume o trota o allodola che sia), che nemmeno nelle poesie più schiettamente amorose verrà meno, sempre espresse con un tal sentimento etico della parola da trovare pochi termini di confronto”(Giorgio Caproni).
Éric Marty, scrittore e saggista, insegna all’Université de Paris Diderot. Ha pubblicato molti libri tra cui Roland Barthes: La littérature et le droit à la mort (2010) e Pourquoi le XXe siècle a-t-il pris Sade au sérieux? (2011) e vari romanzi tra cui La Fille (2015). Ha curato la pubblicazione delle Œuvres complètes di Roland Barthes presso le edizioni Seuil (2002). È specialista dell’opera di René Char.