È una buona giornata per passeggiare. Il cielo si scioglie
nelle ombre del bosco. Sullo sfondo si allargano le sponde di un
lago. Ha smesso di piovere e l'umidità lascia degli aloni sui muri
di un cascinale; il sentiero per
raggiungerlo s'impasta ai teneri
prati di un mattino d'aprile. Due
monaci procedono in pace. Io osservo la scena in silenzio, qualche
metro più in basso, e fingo di ignorare che, da lì a poco, i due monaci moriranno.
Mi trovo nella cappella Portinari, in Sant'Eustorgio a Milano. Vincenzo Foppa l'ha affrescata fra il
1462 e il 1468, poco più che trentenne, e ancora non sa che questa è la
migliore opera della sua carriera.
La fortuna critica delle Storie di
San Pietro martire è dovuta a Roberto Longhi, il primo a vedere in
Foppa un precursore di Caravaggio. E in effetti, mentre assisto all'uccisione del santo, mi stupisce il
realismo con cui il pugnale - ancora prima di affondare nella carne -
squarcia il mansueto paesaggio
lombardo. Potremmo cancellare
questi esseri umani, sostiene Longhi in un passo dei Quesiti caravaggeschi (1929), e il mondo dipinto rimarrebbe comunque immobile e
vero. Mi chiedo che cosa significhi
questa riflessione alla luce dell'anno appena trascorso. Davvero il
mondo rimarrebbe identico senza
la nostra presenza? E senza le opere d'arte e le mostre?
Quest'ultima domanda non è
nuova. Nel 1909, sulle pagine del
Figaro, Filippo Tommaso Marinetti associa il museo al cimitero o al
dormitorio, e quindi si augura la
sua distruzione. Qualche decennio
più tardi, verso la fine degli anni
Sessanta, le voci dell'Institutional
Critique smantellano il sistema
dell'arte e ne denunciano fragilità
e contraddizioni; il museo, o qualunque forma d'istituzione, si trasforma in un avido padrone. Invece
negli ultimi tempi, davanti alle ripetute e insindacabili chiusure di
musei e manifestazioni culturali,
le risposte a un mondo senza opere
d'arte giungono perlopiù da proposte digitali come Instagram show,
fiere online, virtual tour, videoconferenze, e via dicendo. Un rimedio provvisorio che però non allevia il senso di perdita e di disorientamento. Infatti, come sostiene
Boris Groys (In the Flow, Postmedia
Books, 2018), "in questo caso non
abbiamo a che fare con l'arte, ma
con il data-design, ovvero con la
presentazione estetica della documentazione relativa agli eventi artistici reali". In sostanza Groys sostiene che in internet non esiste
l'arte, bensì le informazioni che la
riguardano. In internet esistono il
discorso e i suoi apparati.
Guardando il bicchiere mezzo
pieno, la chiusura dei musei è servita non soltanto ad avvertirne la
mancanza, ma soprattutto a interrogarsi sul loro statuto. Che cosa
sono i musei oggi? Qual è il loro
scopo? Come dovranno evolversi
per non soccombere del tutto? Potranno continuare ad agire come
una sorta di sedativo rispetto all'articolazione del potere? Potranno continuare a raccontare una
storia che ci acquieta anziché inquietarci?
Fra le risposte più convincenti,
a prescindere dall'emergenza sanitaria, quelle che provengono da
Utopian Display. Geopolitiche curatoriali (a cura di Marco Scotini, Quodlibet, 2019). I musei, teorizza Hou
Hanru in uno dei saggi, "molto
spesso sono concepiti sulla base
dei modelli dell'industria d'intrattenimento e del turismo con progetti che non possono che essere
stravaganti, o iconici, così come i
loro programmi e collezioni devono essere spettacolari e popolari".
Questa constatazione invita a immaginare un museo che non ambisca soltanto a raggiungere un numero crescente di visitatori e consensi, piuttosto una piattaforma in
grado di migliorare la società e di
renderla più civile. Una sorta di
"Open Museum", di struttura aperta in senso metaforico verso la
strada. Anselm Franke traccia una
visione simile quando pone al centro del discorso sul museo "la reintegrazione nella memoria e nell'immaginario delle nostre migliori
potenzialità"; e altrettanto sostiene Vasif Kortun quando contraddice alcuni dei modelli museali dominanti, da quello basato sull'espansione immobiliare in aree
emergenti del pianeta a quello
progettato come edificio sacro da
qualche star dell'architettura, dove i visitatori si recano in pellegrinaggio.
Le assonanze tra spazio espositivo e spazio religioso riguardano
tanto l'esterno del museo, quanto il
suo interno: grandi sale che vivono
di luce indiretta e, nell'isolare i
prodotti esposti, impongono rigide
norme di comportamento; distanziano il pubblico dall'oggetto.
Creano desiderio. In Inside the White Cube (Johan & Levi, 2012), per
descrivere il "grado zero dello spazio", "il luogo che è lo stesso dappertutto" Brian O'Doherty indugia
molto sui vocaboli e sulle caratteristiche comuni al white cube e alla chiesa. E ha ragione. Fra le mura della cappella Portinari il rumore della città si riduce a uno spettro sonoro uniforme; la luce è attutita, il clima sempre mite. Sono nel
2021 ma potrei essere anche nel
1521. Non c'è differenza, se non per
lo stato di conservazione dell'affresco e il segnale del cellulare. Visitare gli affreschi di Foppa, anche
pagando una tariffa d'ingresso, come accadrebbe se fossi a una mostra, non è soltanto un espediente
per vedere delle opere dal vivo,
nonostante la pandemia, ma soprattutto per costruire un personale modello di museo aperto, una
narrativa fra opere disseminate in
luoghi diversi. Il patrimonio artistico delle chiese, riscoperto nell'ultimo anno, è complementare a
quello dei musei e delle gallerie, e
ognuno ha la chance di auto-organizzare un percorso che, con un po'
d'ingegno, sfugga alla logica dei
"siti d'interesse" e delle "10 cose
da fare a Milano".
E quindi, sulla scia della riflessione suggerita da Longhi - il mondo che resta indifferente alla
scomparsa dell'uomo - mi muovo
da Sant'Eustorgio a San Bernardino alle ossa, una chiesa di origine
medievale, rimaneggiata nei secoli, annessa al celebre ossario. Un
posto di vivezza ombrosa: la volta,
spalancata su un Trionfo di anime
dipinto da Sebastiano Ricci nel
1695, si regge su delle pareti cipria
e nere, stipate da migliaia di ossa
umane. La guida del Touring Club
dedicata a Milano riporta che le
ossa provengono da alcuni cimiteri
aboliti nel Seicento e sono disposte a formare dei motivi ornamentali. Questo è corretto in parte: le
ossa sono decorative finché non se
ne tocca una. Infilo il dito nella
grata e allora i teschi e i femori
diventano i residui di qualcuno
che ha vissuto prima di me, e di
sicuro aveva un nome; chissà che
mestiere faceva, se è morto in solitudine o con qualcuno accanto, se
aveva dei figli, mi chiedo mentre
sfioro uno zigomo. Le fiamme dei
cerini tremano nel brusio. Ogni
volta che mi soffermo in San Bernardino immagino come tutti quei
teschi vedano la nostra vita da là,
da quel fondo immobile e vero, e
poi deduco che ai loro occhi la nostra vita, alla quale siamo così attaccati, non appaia diversa da
quella degli alberi di un bosco.
All'improvviso, rumore di passi.
Entra una coppia poco più giovane
di me. Ci guardiamo, nessuno sa
che cosa dire. Io mi sento di troppo. Esco e riprendo la mia camminata, un contrappunto all'immota
solitudine dei mesi passati fra le
mura di casa.