Recensioni / Napoli 1960: moderna, ma non troppo. Anzi antica

L'idea di fondo del bel volume Napoli Super Modern a cura di LAN (Benoit Jallon e Umberto Napolitano) con fotografie di Cyrille Weiner, è che nel momento di esaminare gran parte dell'architettura partenopea tra il 1930 e i11960 si possa cogliere in essa una qualità latente, ossia, scrive Napolitano nella premessa, da rinuncia a modelli astratti e idealizzanti e la capacità se non la necessità di misurare il progetto nel contesto fisico, storico-sociale e paesaggistico». Un concetto ribadito nel suo saggio da Andrea Maglio, curatore dell'atlante degli edifici presi in esame, che aggiunge: «La villa Oro di Cosenza, degli anni Trenta, e palazzo Della Morte di Filo Speziale, degli anni Cinquanta, dialogano in maniera simile con il costone tufaceo e con la tradizione architettonica- – antica e moderna –, risolvendo temi decisivi come la vista verso il golfo e difficili salti di quota».
Di fatto esistono pochi edifici a Napoli che possano essere isolati e considerati in modo indipendente. Ciò sembra derivare da una spinta interiore a non tradire la storia della città, il preesistente e il suo paesaggio umano. I layout stradali irregolari, le continue variazioni di altezza, l'archeologia, ma anche l'istinto tutto partenopeo alla partecipazione e alla condivisione degli spazi, nei quartieri nobili come in quelli più poveri, paiono aver avuto il sopravvento sulla omologazione derivante da uno stile generalizzato e dominante. Napoli insomma sembra aver teso negli anni del moderno alla mediazione, piuttosto che alla pura e avveniristica rinnovazione, all'integrazione e all'adattamento e soprattutto alla partecipazione e talora alla coralità. Sul piano progettuale e ancor più del costruito: «Ogni volume sembra scolpito per completare o concludere la forma dell'isolato - scrive Napolitano. Ogni edificio si inserisce con precisione nel tessuto esistente, ne rispetta sia la scala che il profilo e contribuisce così alla specifica granulometria della città». Tale rapporto di continuità è spesso assicurato da «figure di transizione» che operano una sintesi tra l'esistente e il progetto, tra il presente e l'avvenire. Ciò si legge anche nella compenetrazione tra il domestico e il pubblico, e tra quest'ultimo e il sacro, implicando sempre un senso che supera ogni aspetto funzionale e investe l'ambiente umano.
Acquista a questo punto significato emblematico il recupero dei segni identificativi del territorio, come l'acqua e gli scavi. «A Napoli l'acqua è diventata forma», afferma intensamente Gianluigi Freda, autore di uno dei saggi. O il tema della morte «che a Napoli ha diritto di cittadinanza, ci si convive quotidianamente senza nessuna fobia», scrive ancora Manuel Orazi. Napoli dunque nel segno di una identità plurale, legata all'ambiente e allavita, chiarisce Maglio: «La scelta di individuare come termine conclusivo di Napoli Super Modern il 1960 è dovuta alla consapevolezza che negli anni Cinquanta la città mantiene ancora una sua compattezza, prima della grande speculazione edilizia e dell'allargamento verso periferie dormitorio. Questa scelta è certamente arbitraria, ma individua l'inizio di un processo con cui si inizia a perdere anche la caratteristica sovrapposizione di classi sociali, quella contiguità tra popolo e borghesi che in passato colpiva tanti viaggiatori stranieri».