Recensioni / Zoščenko: fare satira ai tempi di Stalin

La maggior parte delle opere di Michail Michajlovič Zoščenko (1885-1958) sono state pubblicate in Italia tra gli anni ’60 e ’70. In quel tempo, al di qua della cortina di ferro, il suo era l’esempio di un “martire”: uno dei più celebri scrittori del suo tempo ostracizzato dal Regime; monito, in terra di scudocrociati, di quanto l’alternativa rossa fosse una pericolosa minaccia per la democrazia occidentale. Da poco tempo, il maggiore scrittore satirico della Russia sovietica è tornato nelle librerie italiane con Racconti sentimentali e satirici (Quodlibet), una raccolta di 66 racconti scelti, voluti e tradotti dal compianto Sergio Pescatori.

L’obiettivo di Zoščenko era raccontare la quotidianità. Non c’è trama sofisticata nei suoi racconti, si può dire anzi che la narrazione sia quasi assente, incentrata intorno a episodi piuttosto scarni, piani, spesso anche banali, che potevano accadere nella vita di tutti i giorni in tram, per strada, in stazione, al teatro. Come è tipico dello skaz, il più delle volte c’è un io narrante che si figura come corrispondenza dell’autore, il quale racconta in tono colloquiale un evento che ha fatto deviare, anche solo di poco, il normale dispiegamento dell’ordinaria routine. I personaggi di Zoščenko sono grotteschi, spesso corrotti dai vizi, e, attraverso la derisione e l’umorismo, l’autore persegue un intento moralizzante. La sua ironia travolge «la miseria morale, la stupidità, l’inganno; è lo smascheramento della pretenziosa ipocrisia, […] il sapore agro della dignità umana offesa dagli uomini stessi».

«I racconti miei, si sa, son presi dalla vita, ed è tutta sacrosanta verità» dichiarava in una prefazione. E anche la lingua appartiene alla vita più che alla letteratura. Un tono schietto, un lessico semplicissimo, confidenziale. Emblema sono le apostrofi ai lettori in apertura di numerosi racconti: «E così, ragazzi, abbiamo una festa in arrivo: la Pasqua ortodossa» (Un fatto pasquale); «Cittadini, oggigiorno i ladri hanno l’aria di moltiplicarsi» (Ladri); «Ragazzi, io non sto qui a discutere a vuoto…» (L’elettricista); «Personalmente, ragazzi miei, io dai dottori ci vado poco» (L’appassionato).

Come ha notato Pescatori nel saggio che accompagna l’opera, l’effetto che Zoščenko riusciva ad avere sul lettore russo attraverso pochi riferimenti, alcuni termini o una semplice frase sono difficili da descrivere, quasi impossibili da rendere nella traduzione italiana. S’è persa – direi inevitabilmente – buona parte dell’ironia per il lettore contemporaneo. Penso al racconto Un europeo, in cui un uomo si fa installare il telefono in casa salvo poi accorgersi che non ha nessuno a cui chiamare. Si può solo dedurre il modo in cui il soggetto del racconto si colloca nel tempo e nello spazio di appartenenza ed è risonante col lettore che ad esso appartiene. Zoščenko scrive per il lettore russo ciò che egli conosce benissimo, ciò di cui fa esperienza nella vita di tutti i giorni. Per fare un esempio, non suscita riso in noi, ma intuiamo il riso che ha suscitato nel lettore dell’epoca l’ironia con cui Zoščenko apre un racconto intitolato Lungaggini burocratiche: «Il burocratismo non faceva paura. E neanche adesso le lungaggini degli uffici non ci fanno impressione. […] E il sistema è così efficace, così poco costoso che bisognerebbe brevettarlo all’estero».

Ma la burocrazia è in fin dei conti lo Stato, e non stupisce che col tempo Zoščenko, a forza di mettere in scena gli aspetti più problematici e disfunzionali del sistema e del costume sovietico, abbia finito per diventare inviso al regime. Come accadde anche a diversi altri scrittori del tempo, da Achmatova a Tvardovskij, anche Zoščenko fu accusato di antisovietismo. Nell’estate del 1946, la pubblicazione su «Zvezda» del racconto Le avventura d’una scimmia – in cui alcuni hanno letto, forse in maniera fantasiosa se non pretenziosa, una satira su Stalin –, inasprisce definitivamente il suo rapporto col Partito. Il segretario Andrej Ždanov esprime pubblicamente e con violenza la sua condanna: Zoščenko viene escluso dall’Unione degli Scrittori e privato della sua tessera annonaria, e di conseguenza tutti i giornali col quale collaborava gli rescindono il contratto, al punto da essere costretto a lavorare in un laboratorio di calzature.

La sua satira, che non risparmiava nessuno – dai critici letterari alla borghesia -, insegnò una lezione importante al Partito: il riso ha un potere eversivo. Non è un caso che a partire dagli anni Cinquanta, i vertici del regime sovietico prestarono molta più attenzione agli autori satirici. Lo dimostra il controllo che fu operato sul «Krokodil», maggiore rivista satirica della Russia sovietica e che in passato aveva avuto tra i suoi redattori proprio Zoščenko. Già nel 1950, il «Krokodil» era diventato «il periodico che ha il monopolio della risata “legale”», capace di suscitare «un riso a denti stretti, su temi obbligati […], un riso pavido». L’esemplare punizione rivolta a Zoščenko, tanto clamorosa in relazione alla fama e al successo dell’autore presso il vasto pubblico, aveva fatto scuola sui controllori quanto sui controllati, andando a spegnere le fiamme dell’entusiasmo e dell’ardimento satirico dei decenni precedenti.

Di fatti, altri hanno notato che a causare la messa a bando di Zoščenko non siano stati tanto i suoi racconti, quanto proprio la sua notorietà, l’affetto e la stima che il grande pubblico gli rivolgeva. «Il potere totalitario considera l’influenza ideologica sul popolo come un proprio monopolio e guarda con estremo sospetto ogni manifestazione di favore e simpatia che non sia promossa e organizzata dall’alto».
Zoščenko, senza alcuna mediazione istituzionale e superando ogni intercessione politica, aveva instaurato un rapporto diretto col popolo; mediante la risata ne aveva guadagnato la fiducia e la simpatia; attraverso dei racconti assimilabili a favole o parabole, proponeva una propria distinzione tra cos’era giusto e cos’era sbagliato. Tutto questo, per quanto ovvio sia ribadirlo, in uno Stato totalitario, nel quale qualsiasi discriminazione tra giusto e sbagliato è appannaggio del regime. Ancor più, Zoščenko era fenomeno di costume oltre che letterario, e «proprio perché tanto popolare, egli doveva costituire un esempio ben chiaro, un esempio, oltretutto, del fatto che nessuno era “intoccabile”».

Che allora Zoščenko sia stato solo quell’uno preso a caso per educarne cento? Egli certo faceva poco per evitare di rendersi inviso al Partito. Ogni sforzo di essere coerente con le istanze del regime e di trovare «un modus vivendi con la propria epoca […] cozzarono sempre contro un ostacolo insormontabile, che era quello della sua coscienza, del senso della propria dignità e del rispetto di sé. Ogni concessione allo “spirito dei tempi” non passò mai il limite di ciò che, come uomo e come scrittore, sentiva di poter concedere a se stesso.»
In Zoščenko, in altre parole, l’integrità prevaleva sulla prudenza.
Lo dimostra ulteriormente un episodio avvenuto nel 1954. Nel corso di un incontro pubblico, la scrittrice Achmatova, che era stata ostracizzata nel ’46 proprio insieme a Zoščenko, definisce giusti e meritati i provvedimenti presi contro di lei. Zoščenko, in quell’occasione, protesta animatamente contro l’abiura di Achmatova e subisce un vero e proprio linciaggio su tutti i giornali.
Non c’era prezzo che valesse la pena d’essere pagato per il tradimento dei propri valori e dei propri ideali.

Negli ultimi anni di vita, con la morte di Ždanov e poi di Stalin e l’arrivo al potere di Chruščëv, Zoščenko viene in parte riabilitato, riuscendo a pubblicare alcune traduzioni e qualche nuovo racconto. Tuttavia la sua salute è segnata da una lunga malattia, che lo porterà alla morte nel 1958. Oggi, in patria, egli è ormai considerato un Gogol’ del suo tempo, e il suo nome incluso accanto a quelli di Puškin, Čechov, Bulgakov o Lermontov nel panteon letterario russo.