La popular music afroamericana è stata per un intero secolo
al centro di un'interminabile serie
di dispute critiche fra
"tradizionalisti" e "progressisti". Già negli anni
trenta il parigino Hugues
Panassié parlava apertamente di "morte del
jazz": il sentimento del
blues, l'elemento "autentico" che caratterizzava i
musicisti afroamericani
— considerati evidentemente come dei rousseauiani bons sauvages — si
stava perdendo. È evidente il retaggio essenzialista di questa posizione:
tuttavia, l'assunto di fondo della presunta "autenticità" era mantenuto
anche dalla critica progressista e militante. Nel suo epocale
saggio del 1963, Blues
People, il poeta e attivista afroamericano Amiri
Baraka scrive, a proposito dei musicisti bebop:
"Questi giovani si appoggiano in larga misura
sulla componente vocale
tipica della musica nera:
spesso si ha l'impressione
di ascoltare i primitivi
shouters. Charlie Parker
ha restituito questa qualità al timbro
jazz, depurandolo (corsivo nostro)
dalle influenze commerciali".
Con il suo Delta Blues, Ted Gioia scava a fondo nelle radici di una
delle più importanti fonti della popular music occidentale: si parte
dalle piantagioni del Delta e dalle
figure quasi mitologiche di Robert
Johnson e Son House; si analizza
l'urbanizzazione e la conseguente
"elettrificazione" del blues (in particolare con Muddy Waters e Howlin'
Wolf, che avevano cercato fortuna
spostandosi a Chicago) e si arriva infine al riconoscimento istituzionale
e mediatico, specie con la parabola
di B. B. King, autentica blues popstar
.
Tuttavia, il merito di Gioia non
è solo ricostruire la storia del blues,
ma anche e soprattutto decostruirne
il mito della purezza e dell'autenticità. Analizzando le opere dei bluesmen, Gioia ha il merito di ribaltare i
clichés di gran parte della critica, che
li voleva esclusivamente depositari di
un'antica tradizione ormai perduta,
o peggio come sorta di idiots savants.
Esemplari, in questo senso, le analisi delle asimmetrie ritmiche di Charley Patton e di Blind
Lemon Jefferson: spesso
percepite come errori,
erano invece precise scelte artistiche. I bluesmen
"non sono stati diversi
dagli artisti d'avanguardia che hanno affascinato il pubblico degli
anni Venti in altri campi:
Joyce, Picasso, Eliot e tutti gli altri.
Iconoclasti come loro, capirono che
violare le convenzioni avrebbe reso
la loro arte più espressiva".
Sempre parlando di iconoclastia,
è singolare come il "tradimento supremo" del
jazz sarebbe avvenuto,
per la critica conservatrice, a opera di un musicista cresciuto proprio in
riva al Mississippi, anche
se più a nord rispetto
al Delta. La cosiddetta
"svolta elettrica" di Miles Davis è al centro del
volume di Bob Gluck,
pianista e musicologo
newyorkese. Tale svolta è perlopiù
identificata dalla critica con l'uscita
di Bitches Brew, fondamentale doppio album registrato nell'agosto del
1969 da un nutrito collettivo di musicisti diretti dal trombettista.
Gluck ha il merito di andare oltre
questa sorta di semplificazione, legando le sperimentazioni di Bitches
Brew all'influenza di Omette Coleman — pubblicamente criticato da
Davis, ma fondamentale nell'evoluzione stilistica della sua musica — e
soprattutto al contemporaneo emergere di una nuova scena dell'improvvisazione radicale, a partire dai primi
anni settanta.
Una delle parti centrali del libro
riguarda il "trasloco" del jazz newyorkese dai club di Uptown Manhattan ai loft della zona di SoHo e
dell'East Village: le case/studio dei
sassofonisti Omette Coleman e Sam
Rivers divennero dei veri e propri
laboratori aperti a tutti i musicisti
di passaggio in città. Parallelamente
alle varie band di Miles Davis (tra
cui il Lost Quintet del titolo, che
nonostante l'intensa attività concertistica non venne mai registrato
in studio) vengono riscoperte e ripercorse le parabole di gruppi che
ebbero minor fortuna: i Circle, formati da due membri del quintetto
di Davis (Chick Corea e Dave Holland) insieme al sassofonista Anthony Braxton e al batterista Barry
Altschul; Musica Elettronica Viva,
collettivo di improvvisatori americani fondato a Roma; e il Revolutionary Ensemble, trio formato dal
violinista Leroy Jenkins, dal bassista
Sirone e dal batterista Jerome Cooper.
Le minuziose analisi dei brani consentono al lettore di immergersi
profondamente nella musica di quegli anni, ma non si tratta soltanto
di una guida ragionata all'ascolto.
Gluck ribalta la prospettiva critica
che vuole Miles Davis "iniziatore del
jazz-rock" (e quindi, perla critica più
conservatrice, "traditore" del jazz).
Viene recuperata al contrario la centralità, nel Davis di Bitches Brew e
del Lost Quintet (e del contemporaneo loft jazz), dell'improvvisazione
cooperativa e collettiva, elemento
fondamentale del jazz a partire dalle sue origini. Del resto, come scrive
Thomas Stearns Eliot, nel suo Tradizione e talento individuale (1919):
"La tradizione non si può ereditare;
chi vuole impossessarsene deve conquistarla con fatica. Perché l'ordine
persista dopo la comparsa della novità, è l'intero ordine che deve essere,
anche in misura minima, alterato".