e montagne sono state sempre lì, ma non esistevano: fino
a che qualcuno non le ha viste e riconosciute. Da simbolo astratto del numinoso, luogo inospitale e temibile, popolato di fate, streghe e uomini silvani, territorio di
caccia o, ancora, necessario quanto
scomodo attraversamento, le cime,
prima con il romanticismo e poi con
i fenomeni sempre più estesi del turismo e della pratica sportiva, che del
romanticismo e della sua ricerca del
limite sono la declinazione nella società di massa, sono diventate quasi all'improvviso un teatro famigliare, sempre più antropizzato e perfino urbanizzato per consentire a coloro che ne provassero il desiderio
(lecito) di godere dell'esperienza della wilderness. Allo stesso tempo, la
valle ha ripreso a rinvigorire e fissare, tra esigenze interne e spinte esterne, l'immagine della propria tradizione. La montagna, molto più di
altri contesti ambientali, è strettamente legata alla sua rappresentazione e alle proiezioni dell'immaginario. Se tutto l'arco alpino è stato
ed è soggetto a questo fenomeno, le
Dolomiti — dove il fascino dei luoghi
si somma alla relativa facilità di accesso — ne costituiscono un vero e
proprio osservatorio privilegiato.
E Osservatorio Cortina 2021 si intitola il progetto di ricerca artistica in
cui i fotografi Gianpaolo Arena e Marina Caneve hanno indagato il territorio ampezzano e la sua cultura per
tre anni. L'arco temporale è stato calibrato sulla preparazione dei Mondiali di sci alpino appena conclusi,
ma appare evidente che lo sguardo
si prolunga verso le Olimpiadi del
2026, a 70 anni esatti da quelle che,
grazie alla completa copertura televisiva internazionale, la prima nella
storia dei Giochi, diffusero l'immagine della "regina delle Dolmiti" in
tutto il mondo. "Di Cortina — si legge nel progetto — l'immaginario comune riproduce spesso aspettative iconiche che assecondano i desideri dei visitatori, piuttosto che
fornire nuove chiavi di lettura del
territorio e della società. E possibile contrastare questo atteggiamento prestando rinnovata attenzione a un paesaggio che è quasi
diventato un'icona cristallizzata all'interno di un'immagine?".
Il risultato è un volume edito da
Quodlibet, La valle tra le cime e le
stelle: non una collezione di panorami o una denuncia del degrado ma
una analisi distaccata degli innumerevoli mondi, moltiplicati a loro volta dalle altimetrie, intrecciati eppure irriducibili, che ricorrono sotto il
termine Dolomiti, una complessità
ben evidenziata dalla mise en abyme del ritorno circolare, ma non
invariato, delle stagioni.
I due fotografi adottano un approccio che fa propria la lezione di Ghirri (da Atlante a In scala, da Topografia - Iconografia a Paesaggio italiano), riprendendone in parte le tinte
chiare che rendono ambigua la percezione temporale ma soprattutto la
centralità del regime scopico (ossia
l'ecosistema di immagini, sguardi e
dispositivi) e l'abbondante ricorso a
quelle che Mitchell chiama "metapicture", vale a dire "immagini di immagini" impiegate «come dispositivo — spiega il teorico del pictorial turn
— per riflettere sulla natura della picture»: in questo caso "immagini di
immagini" della montagna disseminate nei contesti più disparati.
Come osserva Gianpaolo Arena nel
volume, «la rappresentazione icono grafica diventa per tutti noi uno
strumento per riconoscere, formalizzare e capire dove ci troviamo. Riceviamo anche informazioni complementari sul quando e sul perché.
Il segnale amplificato e onnipresente dell'icona dalle Cinque Torri
o dello Schuss delle Tofane riprodotto infinite volte in un cartellone, in una t-shirt o in una tovaglietta
al ristorante azzera il tempo geologico delle montagne per imporre la
visione statica del monumento. Un
totem monolitico e sacrale da cui è
difficile allontanarsi, l'icona cristallizzata di un'idea».
Dal1956 a oggi l'immagine si è fatta
oltremodo pervasiva, si è estesa tecnologicamente in «periferiche per la
libera fruizione di uno spettacolo diffuso» dice Arena. Ma "spettacolo diffuso" è per Guy Debord la caratteristica propria delle società capitalistiche, basate sul consumo delle
merci. «La prima fase del dominio
dell'economia sulla vita sociale —
scrive il filosofo francese in La società dello spettacolo — aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un'evidente degradazione dell'essere in avere. La fase presente dell'occupazione totale
della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell'economia conduce a uno slittamento generalizzato dell'avere nell'apparire, da cui ogni "avere" effettivo deve trarre il suo
prestigio immediato e la sua funzione ultima». Piegando il ragionamento al contesto, lo sfruttamento
economico della montagna è passato dall'oggetto, e quindi dal suo
possesso fisico, all'immagine. Ma
per quanto merce, l'immagine
della montagna resta una mediatrice necessaria perché noi possiamo accostarci. In questo senso
ha ragione Arena quando conclude osservando che «la montagna,
come un riferimento a monito
della nostra finitudine, è sempre
lì, ma abbiamo ancora bisogno di
vederla rappresentata».